Squilli di trombe e campane a festa per il nuovo che avanza. D’altra parte un ulteriore competitor, abile e arruolato per la guerra che più conta, non è notizia di tutti i giorni. Quella che risale alla settimana scorsa è una news che ha dell’incredibile. Non perché abbia spiazzato più di tanto, visto che la voce aleggiava da un po’, quanto per la mole di uscite incoraggianti mostrate a corredo da parte del diretto interessato.
Bando a qualsivoglia mistero, alludiamo alla vicenda Steam Box/Bigfoot, con Valve/Gabe Newell ovviamente in prima linea. Titoli altisonanti (come poteva essere altrimenti?) ed articoli da evangelo minore, con tanti, troppi colleghi atteggiarsi inconsapevolmente quali novelli Battista, pronti a spianare la strada all’imminente messia. L’unto del videoludo, al momento, non cade dal cielo preannunciato da un angelo; niente clima mite e temperato come in quel di Nazaret, ci si deve accontentare di una più rigida Bellevue, in quel di Washington (quartier generale di Valve).
Da lì, direttamente o indirettamente, il verbo si è fatto inchiostro, anzi byte. Gli stessi che negli ultimi giorni intasano le reti di mezzo mondo, pronti ad ammaestrare le anime in pena sparse per il globo, che attendono la voce del salvatore; l’emanuele che salva, che redime e che carica su di sé tutti i peccati dell’industria tutta. È lui, Gabe Newell, il prescelto. Lui ci sta già mostrando la strada. Anche se per ora si tratta tutt’al più di un’indicazione casuale, come colui che punta il dito verso un punto imprecisato: “tanto è lì che devi andare“.
Lungi da noi irretire i nostri lettori con del facile e banale sarcasmo irreligioso da quattro soldi. Probabilmente il nostro apparentemente dissacrante incipit ha più a che vedere con la pompa magna di questi giorni che con i diretti interessati. Non che a chi di dovere dispiaccia tutto questo ciarlare, anzi. E di Bigfoot in questi giorni se n’è parlato, uh se se n’è parlato!
E mentre la scatola piena d’aria passa di mano in mano, pochi che si prendano la briga di andare oltre il poco (niente) che Newell e soci ci hanno fino ad ora “venduto”. Per esempio, in origine questo avrebbe dovuto essere un articolo inerente alla nuova (?) console di Valve, salvo poi rendermi conto che non avrei potuto aggiungere nulla rispetto a quanto già non fosse stato scritto. D’altronde, si tratta più che altro di colmare dei vuoti, lasciati in sospeso in attesa di nuovo ordine.
Proviamo quindi noi, nostro malgrado, a tentare un timido approccio alle implicazioni di questa scatola vuota che, ci dicono, rivoluzionerà l’industria dalle fondamenta. Qualcuno si è saggiamente domandato chi o cosa avesse spinto Valve ad una mossa di siffatta portata. O meglio, perché ora e perché in questo modo. In piena crisi, mentre assistiamo ad un cambio di paradigma epocale, una seppur influente compagnia di settore decide di intraprendere la più ambiziosa delle imprese, ossia immettere sul mercato una piattaforma tutta sua.
Immediate le prime reazioni, oltreché fondate: lo dice il nome in codice stesso, Steam (Box). La piattaforma in questione ha sdoganato un fenomeno da tempo inevitabile, la cui filosofia a quanto pare ben si sposa con le esigenze o anche solo i gusti di tanti ma davvero tanti videogiocatori. Ad oggi Steam conta grossomodo 50 milioni di utenti iscritti, 10 in più rispetto, per esempio, ai sottoscrittori di Xbox LIVE. Adagiarsi sugli allori e crogiolarsi coi numeri è affare da principianti, perciò perché non servirsi di questo già eccelso dato quale punto di partenza per qualcosa di più grande?
Steam Box, Bigfoot o qualunque cosa bolla in pentola nei recessi degli studi Valve potrebbe anzitutto rappresentare una risposta a questa necessità di passare allo step successivo. Della piattaforma in sé, come già evidenziato, si sa poco o nulla. Sembra essere pacifica un’ampia apertura della stessa, elemento che la differenzierebbe a priori da una qualsiasi console: flessibilità contro rigidità strutturale; è questa la prima battaglia di Newell e soci. Ma tutti si chiedono: cosa conterrà al proprio interno questa “console 2.0”? Come promette di farci giocare? A cosa promette di farci giocare?
Tutte domande a questo punto superflue. Valve ha già venduto il proprio prodotto. Non grattatevi il capo… avete letto bene: Valve vi ha già rifilato la sua creazione, e voi siete davanti alla cassa con la vostra carta di credito/bancomat pronta ad essere strisciata. «Ma come?», direte voi, «se non sappiamo neanche quanto costa?». «Ma perché», aggiunge il sottoscritto, «da quando in qua il prezzo ha rappresentato una vera discriminante?».
Newell è quasi riuscito a portare a termine la prima e più delicata fase di ogni compravendita, specie se su larga scala, ossia innestare il proprio prodotto nella mente del potenziale acquirente. Esatto, ha gettato l’esca ed in tanti, troppi hanno già abboccato. Quello che avete (abbiamo) già acquistato è l’idea. Importa poco che nei migliori (ma anche nei peggiori) forum della Terra imperversino critiche, ammonimenti, riserve e quant’altro. La sedicente critica è già stata ammaliata dal canto delle sirene: Steam Box è il futuro, o al peggio ci assomiglia più di chiunque altro.
Prendete il presente scritto: sul mio contatore leggo 847 parole e non ho ancora detto nulla riguardo a cosa realmente sia Steam Box/Bigfoot. Il vostro è uno a cui manca il dono della sintesi? Può darsi. Ma ancora più probabile è che il sottoscritto non abbia nulla su cui realmente scrivere a riguardo. Rivolgiamoci alla blasonata intervista apparsa su The Verge: più di 4,6 mila condivisioni su Facebook, 1339 su Twitter, 710 menzioni su Google+ (al momento in cui scrivo, s’intende). Per Obama non sarà un granché, ma per questo settore sono numeri.
Cosa troviamo al suo interno? Nulla, con un po’ di condimento – salvo voler considerare una notizia quella secondo cui Valve reputi Wiimote e affini una sonora presa per i fondelli. Infatti, nulla. Tuttavia, proprio in chiusura, giunge il botta e risposta che consolida la tesi sopra riportata, quella per cui, dopo avervi fatto sbronzare per bene, Valve sta già affondando la propria mano nei vostri pantaloni, pronta ad abusare di voi anche nel cesso di un locale, se necessario.
Intervistatore: È del parere di essere realmente nelle condizioni di poter irrompere nello spazio dell’intrattenimento casalingo e competere con Microsoft e Sony?
Gabe Newell: La rete è super intelligente. Se fai qualcosa che è figo, che valga davvero il tempo delle persone, quest’ultime saranno disposte ad abbracciarlo. Se fai qualcosa che non lo è ed anzi fa schifo, puoi spendere tutti i soldi che vuoi in marketing, ma loro non ti considereranno nemmeno.
Quando la rete prende vita, personificandosi, allora dobbiamo cominciare a guardarci intorno con aria quantomeno circospetta. Poco importa se, qualche termine dopo, tornano a far capolino le persone. La rete, quest’entità autonoma, è «super intelligente». Questo significa che sì, «voterà per noi, ci appoggerà: come può essere diversamente?». È all’uomo-massa che Newell si rivolge, ma non perché costretto dall’ovvia impossibilità di rivolgersi ad ognuno di noi singolarmente; troppo facile. Newell sta semplicemente e diligentemente scavando uno spazietto per sé e la sua scatola vuota, ed il terreno è quello delle nostre psicologie. Non fermatevi alla stravaganza di quanto appena descritto.
A conferma di ciò, giungono puntualmente le immancabili ed ulteriori dichiarazioni del buon vecchio Gabe, che dal pulpito proclama: «Gli attuali colossi del mercato soccomberanno sotto i colpi del cambiamento!». Manca solo una roccia che dà su un dirupo, in cui appoggiare una gamba e, spada al cielo, l’epico urlo: “Dio lo vuole!”.
Torniamo seri. Onde evitare equivoci, chiariamo subito: non coltiviamo al momento alcuna posizione ferma riguardo Steam Box. Il motivo è semplice: non sappiamo di che si tratta. Non possiamo abbracciare un programma che non conosciamo, né tantomeno avversarlo. Quello che ci ha fatto storcere il naso è la gran cassa mediatica, comprensibile ma non per questo giustificabile. Né, ancora, coltiviamo alcuna antipatia per Newell; ma chiunque nella sua posizione sarebbe incorso nel medesimo trattamento da parte di chi scrive. Perché se è vero che le idee forti sono immancabilmente destinate a vincere, spiegandosi da sé, che bisogno c’era di metter su tutta questa variopinta e rumorosa parata senza poi mostrare o descrivere alcunché?
Ma qui ci allacciamo al discorso che più ci interessa, ossia quello sui videogiochi. Non siamo riusciti a fare a meno di scorgere l’ennesimo sintomo, malessere se vogliamo, di un settore oramai alle corde. Ne abbiamo discusso in occasione del dopo-E3, quando ci servimmo dell’espressione «connettività che non connette». Anche oggi, come allora, non ci resta che una constatazione ed una soltanto: il futuro immediato dei videgiochi, allo stato attuale, passa da logiche meramente distributive.
Dimenticatevi le diatribe su RAM, ROM, CPU, GPU, HDD, Full-HD e chi più ne ha più ne metta; tutte sigle dal retrogusto anacronistico oramai. C’è una conferma (di certo non una novità): tutto ciò non conterà un bel nulla. Sappiamo cosa stanno pensando i più maliziosi: “ecco l’autore portare acqua al mulino di Nintendo, che per simili argomenti non simpatizza di certo“. Mi spiace deludervi, ma così non è. Mentre molti si preoccupano di capire quali siano le prospettive di un hardware “già superato” come quello di Wii U, agli stessi sfugge che l’aspetto che più di ogni altro dovrebbe inquietarli riguarda la gestione delle varie funzionalità online. Ed in tal senso la casa di Kyoto, inutile negarlo, dimostra davvero di arrancare ancora.
Perché il punto è proprio questo: in un periodo in cui nessuno riesce a capire che pesci prendere, l’unica, concreta innovazione che s’intende imporre come tale è un nuovo modo di arrivare al prodotto. O meglio, una modalità che già esiste ed è ampiamente praticata, ma che nel prossimo futuro si vuole definitivamente standard. Udite l’eco di voci che giungono da qualche anno fa? Quelle voci che sussurrano “digital delivery”, “frammentazione dei contenuti”, “via il pacchettizzato”.
Ci stiamo sempre più avvicinando al nocciolo della questione, ed avvertiamo già le roventi temperature. Perché le implicazioni trascendono il videogioco stesso, situandosi su livelli ben più alti. È notizia tutto sommato recente quella che vuole in atto un processo che porterà, a breve o meno, alla scomparsa del contante. E per contante intendiamo tutto, comprese le monete (perdonate la banale precisazione): nella società di domani, secondo questo programma, tutte, e dico tutte le transazioni, di qualsiasi natura, passeranno solo ed esclusivamente attraverso circuiti telematici et similia. In altre parole, anche per comprare il pane avremo bisogno della carta di credito (giusto per dovere di cronaca, sono già sorti movimenti coscienziosamente contrari a tale deriva, come Contante Libero).
In uno scenario del genere, ipotetico o meno, è chiaro che l’odierna macchina distributiva non può che essere destinata al collasso. Esiste l’acquisto online anche riguardo ai supporti fisici, certo, ma date uno sguardo ai prezzi praticati su Steam, e chiedetevi quanto possa durare (Play.com chiuderà a Marzo con il mercato retail, come riportato sul sito della BBC appena qualche giorno fa, diventando un marketplace a tutti gli effetti). Valve questo sembra averlo capito, consapevoli del fatto che questo sia il momento migliore per sferrare la stoccata decisiva. E chi meglio di loro che, come detto, dispongono di una piattaforma online (Steam) che vanta ben 50 milioni (!) di utenti?
A questo punto qualcuno si sentirà frastornato: fino a qualche capoverso fa ironizzavamo sulla figura del “Newell profeta”, mentre adesso gli diamo implicitamente ragione? No, cari lettori, non confondetevi. Il verme fissato sull’amo dal quale ci teniamo a debita distanza è quello della presunta innovazione. Presunta, oltre che tacita, s’intende. Perché di tutto quanto riportato sino ad ora, molti potrebbero pure bellamente infischiarsene (anche se non è quello che sinceramente auspichiamo). In fondo, tra gli interstizi di questo nostro spedito ragionare, giace una certa amarezza. Amarezza per un settore, ahinoi, giunto al capolinea.
Non ci piacciono i toni da Armageddon, ma non intendiamo tacere quanto a noi sembra così chiaro, cristallino. A Giugno parlammo di giro di boa, mentre oggi ci tocca prendere atto di un punto di non ritorno. Mentre il mercato ancora bastona sonoramente l’ultima delle trovate che dovevano sconvolgere il settore (Kinect), l’industria si trova a corto di scorciatoie. Non esistono vie preferenziali, né strade alternative da imboccare. Il medium si avvia ad una fase di inesorabile declino, incapace di autorigenerarsi dall’interno. Ecco perché pilucca da altri settori, cercando di inglobare a sé escamotage che gli consentano di sopravvivere a quella malattia terminale che va corrodendola fino alla definitiva consunzione. Con il facilmente ipotizzabile epilogo che lo vuole inglobato esso stesso, magari fagocitato dal gigantesco settore delle Applicazioni (App), sempre più grosso, sempre più “ingombrante”.
Aggrappato al respiratore di trovate che non attengono strettamente ed ontologicamente a dinamiche interne al settore stesso, continua a tenere la mascherina d’ossigeno alla bocca, rinviando in maniera a dire il vero lugubre il definitivo trapasso. Kickstarter o chi per lui, ma prima ancora l’apertura di Xbox LIVE Arcade avrebbero dovuto suggerircelo; avremmo dovuto scorgere in queste flebili voci le strazianti urla con cui il medium stava chiedendo aiuto, “accontentandosi” di noi pur di sopravvivere. E se è vero che la vecchiaia altro non è che un ritorno all’infanzia, in maniera piuttosto eloquente riusciamo a darci ragione di questa capillare diffusione di giochi che ci riportano indietro di almeno vent’anni, agli 8-bit, ai side-scrolling di ogni tipo e via discorrendo.
Ora Valve si gioca le proprie carte, quelle che aspettava ansiosamente di scoprire da tempo. Partendo da quell’affascinante utopia della console unica, si dice disposta a consegnare nella mani di tutti e di nessuno qualcosa che, almeno concettualmente, le si avvicina davvero tanto. Semplice, user-friendly per vocazione, pronta a portare il PC in ambito console e quest’ultima in ambito PC. La “scatola magica” le cui dimensioni incidono anche sul concetto di portabilità, visto che dovrebbe essere possibile infilarla in una tracolla e trasportala dove si vuole, purché ci sia una TV. Scatola magica che soprattutto evoca la Lanterna Magica, dispositivo che fu un lontano parente di quel cinema delle attrazioni che era tutt’al più spettacolo, non ancora cinema.
Un ritorno ad origini ancestrali, dunque, che trascendono il mezzo videoludico stesso, scavando nel passato di quell’Arte che ancora oggi la supera e la precede (il cinema, per l’appunto). Perché, come scriveva un celebre giornalista, «la stasi non può che comportare regresso». Ma non preoccupatevi, perché regola base di qualunque manuale di teoria dei media (anche del più scarso) è che nessun medium necessariamente scompare a seguito della comparsa di quello successivo. In altre parole, il Cinema non ha spazzato via il Teatro.
Dalle ceneri di quel che è stato il videogioco sorgerà qualcosa di diverso, senza per forza seppellire alcunché. Ma a differenza degli ambiti sopra citati, il videogioco lascia già l’amaro in bocca, come se in realtà il suo “superamento” arrivasse troppo presto. Ha bruciato ogni tappa, questo è vero, imponendosi alla massa in meno di trent’anni e diventando fenomeno di costume inconscio, latente. Eppure la sua esistenza pare essere motivata solo in funzione dell’imminente cambiamento, come se il medium, così per come lo conosciamo, avesse tutt’al più rappresentato lo stadio larvale della meravigliosa farfalla o dell’obbrobrio che un giorno verrà fuori da questo guscio.
D’altro canto, oggi più che mai, l’unica religione che chiunque farebbe fatica a negare è quella economico-finanziaria. Una religione che ha mosso (e muove) più coscienze di qualunque altra nella storia, ed in nome della quale sono state combattute più guerre “sante”, propiziando olocausti sparsi che hanno mietuto vittime nell’ordine di centinaia di milioni. Inevitabile che anche questo settore tenti di adeguarsi, sottostando a nuovi modelli economici, largamente più profittevoli ed alla cui adesione dipende il suo intero destino. Non stupisce che in pochi, quasi nessuno, si domandino quale possa essere l’ambito di applicazione di un’idea sensata come IllumiRoom, trovata che rischierebbe addirittura di conferire un “senso” a Kinect – a chi pensa che sia inutile perché “tanto vale acquistare un proiettore” rispondiamo che IllumiRoom dispone di un potenziale che nessuna cornice, nemmeno la più grande, riesce ad eguagliare. L’ambito di applicazione, con relative ripercussioni concrete sul gameplay ci sono eccome.
Noi, nel nostro piccolo, ci siamo limitati ai giochi di calcio: uno dei limiti più assurdi ma altrettanto ineludibili che abbiamo sempre riscontrato afferiscono alla porzione di campo visualizzabile all’interno dell’inquadratura. Immaginate di avere un televisore che continui a mostrare il campo così come lo mostra oggi, solo che, grazie ad Illumiroom, fuori dalla cornice potremmo scorgere un nostro compagno che sta scattando mentre si trova dall’altra parte del campo, per poi lanciargli il pallone. Entro i limiti di qualunque inquadratura ciò stonerebbe, ma qualora lo spazio non si limitasse a quanto contenuto nella cornice (che deve rimanere il fulcro dell’azione) si aprirebbero spiragli davvero interessanti.
Questo è solo un esempio di come nuovi modelli di fruizione del mezzo possano incidere sulle modalità di espletamento dello stesso, concetto che sfugge ai tanti che, ancor oggi, guardano un film sullo schermo del proprio computer e si ostinano a chiamarlo cinema (credendoci pure). Opportunità che questo stravolgimento di logiche distributive pare non portare affatto in dote, ponendosi semmai come introduzione che, di primo acchito, finirà col limitare l’utente anziché no. Insomma, la disfatta di questo settore così per come lo conosciamo. Un po’ come gli zombie che, in maniera beffardamente ed emblematicamente calzante, riempiono i nostri pannelli in una miriade di titoli da qualche anno a questa parte: un cadavere che si trascina, in attesa di una cura che non arriva mai.
O meglio ancora, come aveva intuito, magari inconsapevolmente (e l’apparente inconsapevolezza rappresenta uno dei tratti caratteristici del genio), Hideo Kojima con la creazione di Snake in Metal Gear Solid, il videogioco contemplava preventivamente nel suo DNA tale destino, ossia quello che lo voleva una creatura destinata a durare troppo poco; una fiamma pronta a spegnersi troppo presto. «War has changed», annunciava mestamente un invecchiato Solid Snake in Guns of the Patriots. A noi non resta che aspettare cosa il giovane ma decrepito medium che tanto ci appassiona farà con l’ultimo proiettile rimasto in canna, mentre si porta la pistola alla bocca.