C’è stato un periodo in cui ogni inezia riguardante Catherine era per noi fonte di gioia, da condividere seduta stante coi lettori. Mesi in cui questo primo lavoro del Team Persona durante l’attuale generazione si mostrava a stento, come in un lungo spogliarello. Dapprima, per ovvi motivi, si gridò ad un nuovo RPG, magari ad un fantomatico Persona 5. Poi, quasi subito, tornammo coi piedi per terra, apprendendo che la verità fosse ben lontana da simili scenari.
Ma allora di cosa si trattava? Per capirlo ce n’è voluto di tempo, ed in tutta sincerità c’è chi ancora se lo domanda. Noi, che abbiamo avuto il piacere di giocarlo, non ci siamo nemmeno sforzati di affibbiargli un genere. Per comodità potremmo definirlo un puzzle-game con qualche elemento da survival-horror. Ma sappiamo già che non renderemmo giustizia alla portata di un titolo che va ben oltre certe spicce catalogazioni.
Diremo allora che Catherine è ciò che è: un esperimento, se vogliamo, che spinge questo settore un po’ più in là. Merce rara, insomma. Qualcosa che pretende di essere compresa, assimilata, prima ancora di essere giocata. Checché ne diranno molti, infatti, la portata di un titolo come Catherine esula dai giudizi del singolo. Per certi aspetti è fin troppo avanti, con un piede in quel futuro che ancora non esiste.
OCCHIO NON VEDE CUORE NON DUOLE?
L’incipit narrativo è forse una delle cose meno oscure di questo progetto. Sappiamo che Vincent è il protagonista di questa particolare storia; storia che a chi scrive piace definire surreale, ma non per questo irreale. I fatti, lo scenario e le atmosfere ci inducono a credere che tutto ciò a cui assistiamo appartenga a una realtà diversa da quella che viviamo. Ma i tremendi quesiti che si pone Vincent sono quelli che qualunque uomo con alle spalle una rapporto importante potrebbe porsi.
Non vorremmo dissuadere le donne, ma a conti fatti saranno i maschietti a trovare molti più punti di contatto con le vicende di Catherine. Il protagonista, apparentemente suo malgrado, è a un bivio: dare una svolta al suo vecchio rapporto con Katherine, passando allo step successivo (leggasi “impegno serio”), oppure godersi l’ebrezza dell’avventura con la sconosciuta Catherine?
Il gioco vi pone costantemente dinanzi a tale bivio, per l’intera durata del gioco, sappiatelo. Non importa quanto vogliamo eludere la questione, perché questa ci si para puntualmente dinanzi ad ogni minimo progresso che facciamo. A prescindere da chi tiene il pad tra le mani, l’inquietante voce che pare aver scaraventato Vincent in quest’incubo senza fine incalza con domande di questo genere. Non vogliamo togliervi il gusto di scoprire da voi quali siano, ma sappiate che il leit motiv dell’intera narrazione è uno ed uno soltanto: il tradimento.
Presunto o reale, non importa. Catherine (il gioco, non la prosperosa bionda… a questo punto è bene sottolinearlo) ci forza a setacciare negli angoli più remoti della nostra coscienza, costringendoci a trovare risposte a domande scomode. E serve poco per calarci totalmente nel contesto. In città si registrano strane morti: dei cadaveri vengono rinvenuti nei propri letti coi visi deturpati. Nessuno capisce perché, né chi sia stato. Quel che è certo è che queste morti sono in qualche macabro modo collegate.
Neanche il tempo di apprendere la notizia al telegiornale, però, che Vincent si ritrova seduto a discutere con una giovane ragazza mai vista prima. Tutto allo Stray Sheep, locale presso cui Vincent è un assiduo frequentatore, assume un tono onirico. Così come onirico è il tenore di tutto ciò che viene dopo, visto che da quella stessa notte lo sfortunato protagonista comincia ad avere strani, terribili incubi. C’è una qualche relazione tra i cadaveri rinvenuti, la meravigliosa ma inquietante Catherine ed il periodo tutt’altro che edificante che sta passando Vincent? Sì perché, come abbiamo già accennato, il rapporto con la sua ragazza storica, Katherine, è oramai approdato a un punto di non ritorno: o si va avanti o si scende dalla nave.
UNA LUNGA SCALATA
Sappiamo qual è il dubbio che attanaglia buona parte di coloro che stanno ancora sgranando gli occhi in attesa dell’uscita di Catherine. Cosa ci toccherà fare? Niente di più semplice, ma al tempo stesso più complesso. Per quanto attiene alla nostra trattazione, non possiamo far altro che limitarci alla superficie. Saremmo disonesti, però, se negassimo che questo titolo tragga linfa vitale da un sottotesto di rara fattura. Quello del Team Persona è, per certi aspetti, un trattato di semiotica in movimento. Troppi i rimandi a significati ben più profondi, e che andrebbero sviscerati in un saggio a sé stante.
Quanto appena detto è bene sottolinearlo, dato che limitarsi alla scorza di questo gioco rischia di generare non poche amarezze. Di fatto, Catherine si snoda in due fasi: la prima, che è poi l’anima del gioco, è rappresentata da una serie di sezioni in cui non bisogna far altro che risolvere dei rompicapi sui generis. Questa è anche la parte alla quale è possibile accedere solo dopo che Vincent si è addormentato. Scaraventati alla base di strutture via via sempre più complesse e articolate, il nostro compito è quello di arrivare in vetta. Per riuscirci dobbiamo acquisire non poca familiarità con un sistema non immediato, perché essenzialmente innovativo. Qualunque piattaforma ci troviamo a scalare, è composta di numerosi cubi. Bene, l’abilità nostra dev’essere quella di disporli in maniera tale da salire e non rimanere bloccati allo stesso livello. Man mano, con il logico aumento della difficoltà, gli handicap per riuscire nell’impresa di raggiungere il punto più alto verranno incrementati. Trappole, cubi ghiacciati, poco tempo a disposizione e chi più ne ha più ne metta.
La seconda fase è prettamente, se vogliamo, investigativa. Impossibile attuare una gerarchia tra i due momenti di cui consta il gioco, dato che è proprio in questi momenti che dobbiamo raccogliere quante più informazioni possibile per capire cosa diavolo sta succedendo. In altre parole si tratta di ricostruire la stranissima vicenda, nonché il ponte che intercorre tra gli incubi e la realtà. Sì perché veglia e dormiveglia vengono mescolate, tanto da non capire più cosa sia reale e cosa no.
Se svegli, per esempio, ci viene data la possibilità di interrogare tutte le persone che bazzicano allo Stray Sheep. Ma anche durante il sonno, tra una scalata e l’altra, abbiamo l’opportunità di fare domande ai nostri compagni di sventura – credevate che Vincent fosse l’unico disgraziato? Beh, vi sbagliavate di grosso! E questo per ricollegarci a quei significati meno espliciti ma non per questo fortemente presenti.
Quelli che volgarmente possiamo chiamare livelli, sono divisi seguendo un canovaccio che gli amanti della serie Persona già conoscono. L’obiettivo è quello di scalare una montagna, divisa in più strati. Ogni strato dispone di tot numero di livelli. Per accedere allo stage successivo, manco a dirlo, bisogna combattere il classico boss di fine livello. Eccone un altro: la montagna altro non rappresenta, metaforicamente, che il grado di consapevolezza di Vincent. Per acquisire la verità (la vetta), deve scavare in profondità partendo dal punto più basso (la base). Da principio gli “strati” sono otto, ognuno dei quali, come detto, composto da più livelli. Tuttavia… Basta, non possiamo dirvi altro, se non che il gioco dovrebbe grossomodo garantirvi una quindicina di ore di puro intrattenimento. E’ chiaro però che il tutto dipenda dal livello di difficoltà scelto, nonché dalla vostra capacità nel risolvere gli enigmi. Noi abbiamo giocato a livello Normale.
VECCHIE CONOSCENZE
Artisticamente parlando, Catherine si fa forte anzitutto di uno stile ben preciso. Due le figure chiave in tal senso: Shigenori Soejima in qualità di character designer e Shoji Meguro per quanto concerne il comparto sonoro. Parliamo di due veri e propri punti di riferimento per il Team Persona, la cui carriera è saldamente ancorata alla serie di Shin Megami Tensei (da noi Persona). E’ grazie a loro se Catherine promana quel feeling che abbiamo imparato ad amare in relazione al celebre j-RPG.
Il già ottimo comparto grafico riscontrabile durante le sessioni di gioco, viene impreziosito da numerose scene d’intermezzo interamente realizzate a mo’ di anime. D’altro canto, pad alla mano, ci troviamo sempre, senza eccezioni, in ambienti ben delimitati. Che sia un bar oppure una location totalmente immaginaria, ci si muove sempre in spazi abbastanza stretti. Non angusti, anzi. Ma stretti.
A questo stile visivamente grottesco, viene stupendamente integrata una colonna sonora che noi abbiamo particolarmente gradito. Come non citare certi brani riarrangiati da Meguro per l’occasione? Mostri sacri come Dvorak, Chopin, Rossini ed altri ancora ripresi ed adattati ad un contesto apparentemente estraneo. Eppure anche Catherine dimostra che certa musica difficilmente “morirà”, passassero altre duecento anni.
COMMENTO FINALE
Noi le mani avanti le abbiamo messe subito. Era pressoché inutile sperare di poter condensare tutto quello che andrebbe detto su Catherine in una sola recensione. Servirebbe un saggio, ed anche lì il lavoro non mancherebbe. Noncuranti della violenza di ciò che stiamo per scrivere, non intendiamo addolcire la realtà dei fatti: per apprezzare Catherine bisogna accettare un compromesso ed uno soltanto. Questo gioco va compreso ancora prima che giocato.
Paradossalmente, il titolo in questione risulta appetibile a svariati palati. Rientrate tra coloro che nei videogiochi ci vedono semplicemente una sfida, adorando macinare record su record? Catherine va bene. Avete sempre meno tempo da dedicare ad un gioco di ruolo, ma cercate comunque un titolo con una trama più che valida? Catherine va bene. Siete attratti dal fascino di atmosfere immaginativamente orientaleggianti, fantasy escluso? Catherine va bene. Cercate qualcuno o qualcosa da sparare, fosse anche una volta ogni tanto? Catherine non va assolutamente bene.
Questo breve ‘botta e risposta’, purtroppo, non esaurisce l’argomento. Ma almeno, si spera, rende l’idea riguardo a cosa potreste trovarci dentro. Tuttavia il Catherine di cui ci piacerebbe parlare è un altro. Riguarda una storia matura, dai toni epici, in cui l’avventuriero di turno si vede costretto a lasciare ciò che gli è più familiare per intraprendere un viaggio da cui tornerà irrimediabilmente cambiato. Attimi di gioia, preceduti da estenuanti momenti di sacrifici e… perché no? Anche di noia.
Sarebbe straordinario soffermarsi proprio su tutto quello che Catherine non dice, eppure “insegna”. Perché oggigiorno serve un videogioco per ricordarci che quella scalata, a cui tutti siamo chiamati (nessuno escluso!), non è uno di quelli appuntamenti che possiamo rinviare. L’assurda storia di Vincent ci insegna che rimanere allo stesso punto significa scomparire, fagocitati da un mostro che in fondo è la vita. E che l’unico modo che abbiamo per sottrarci a questa atroce fine è scalare una montagna, senza mai guardarsi indietro, se non una volta arrivati in vetta.
Su questo e tanto altro ci piacerebbe discutere. Ma oramai è giunta l’ora di deporre le armi, che per noi altro non è che una semplice tastiera, e limitarci a ravvisare quanto segue. Catherine, piaccia o non piaccia, è un titolo spartiacque, di quelli che rompono gli schemi. Pur servendosi di un linguaggio abbastanza codificato, come quello videoludico, si dimena all’interno di questo spazio stretto. Spingendo un po’ più in là le potenzialità espressive del medium, il Team Persona ce l’ha fatta – dimostrando che questo mezzo non è una pozzanghera bensì un mare sconfinato. Bisogna avere il coraggio di navigarlo, però. Diversamente continueremo costantemente a credere di essere approdati in India quando invece ci si trova in America.
Attraverso questo link, qualora ve lo foste perso, potete apprendere cos’è accaduto al vostro povero redattore qualche mese fa. Si tratta di un aneddoto, a quanto pare, strettamente collegato a Catherine. Il mistero rimane…