Portata a compimento la sanguinaria epopea dei fratelli Ray e Thomas McCall, per questo nuovo capitolo della saga di Call of Juarez i ragazzi dell’esperta casa di sviluppo polacca di Techland decidono coraggiosamente di allontanarsi dall’ambientazione del selvaggio West per riportarci ai giorni nostri e permetterci di intraprendere una guerra senza quartiere contro i cartelli della droga che appestano le moderne e soleggiate metropoli californiane.
Diversamente dall’ottimo Bound in Blood e dal suo diretto predecessore, quindi, The Cartel nasce per ampliare l’universo videoludico della serie attraverso la completa rimodulazione della trama e persino della giocabilità, grazie soprattutto all’introduzione di un’inedita modalità cooperativa che, nelle intenzioni degli sviluppatori, dovrebbe caratterizzare pesantemente sia la campagna principale che le restanti modalità multigiocatore. Non meno importante, nell’economia di gioco complessiva, è poi il ruolo dei tre agenti che dovremo impersonare per fare i conti con i trafficanti e le bande di criminali del posto.
Di elementi narrativi, tecnici e squisitamente “ludici” da analizzare nell’apposita recensione che abbiamo preparato per voi e che potrete leggere subito dopo la pausa, quindi, ce ne sono davvero parecchi.
CONFINE BOLLENTE
Il devastante incendio appiccato al centro urbano di Atlanta nell’agosto del 1864 dalle truppe nordiste per costringere alla resa i sudisti durante la Guerra di Secessione, evento cardine della storia degli Stati Uniti e della trama di Bound in Blood, in The Cartel è ormai un argomento secondario del programma scolastico delle scuole elementari: l’America del ventunesimo secolo ha troppi problemi da affrontare per concedersi una “pausa di riflessione” tra le pagine sbiadite dei suoi libri di storia.
Lo strappo compiuto dai Techland nella linea cronologica della serie, allo stesso modo, ha come conseguenza diretta quella di allontanarci dalle atmosfere da spaghetti western cui siamo stati abituati fino ad ora: le infinite battaglie con gli indiani, le immense praterie da percorrere a cavallo e i duelli all’ultimo sangue per avere la meglio sullo sceriffo di turno saranno un lontano ricordo del passato. Con Call of Juarez: The Cartel, infatti, i Techland stravolgono gran parte della narrazione e della struttura di gioco dei capitoli precedenti per ridisegnarle in funzione della guerra dichiarata dalle forze di polizia della California e dai federali alle pericolose bande criminali provenienti dal Messico che, col tempo, hanno acquisito sempre più potere nell’area rischiando di trasformare la costa ovest degli Stati Uniti in una sorta di zona franca per i traffici illeciti di sostanze stupefacenti.
Il nostro compito principale, quindi, sarà quello di indebolire ad ogni costo la rete di Juan Mendoza, la mente dietro a un cartello della droga riuscito a espandersi al punto tale da poter contare sull’appoggio di diversi agenti corrotti: la squadra che dovremo comandare sarà perciò completamente autonoma e indipendente, una misura precauzionale resasi necessaria per la sicurezza di Jessica Stone, un’importante testimone da proteggere dai macellai di Mendoza fin quando non riusciremo a trovare abbastanza prove per inchiodare i capi dell’organizzazione. A rendere più interessante la campagna principale, riuscendo al contempo ad addolcire l’amaro in bocca causato dall’assenza di ambientazioni western propriamente dette, ci pensano però le tre interessanti sottotrame legate ognuna agli agenti della nostra squadra, composta dalla solitaria cecchina dell’FBI Kimberly Evans, dal rude detective della Omicidi Benjamin McCall (il cognome spiega tutto) e dall’agente federale della DEA (Narcotici) Eddie Guerra, dedito al gioco d’azzardo e a un paio di altre attività non proprio lecite…
Nonostante il numero di missioni nella campagna principale sia mediamente superiore a quello degli sparatutto concorrenti (con tutto ciò che potete facilmente immaginare in termini di longevità), le situazioni proposteci dai Techland danno velocemente alla noia e peccano di varietà, non consentendoci di godere appieno della bontà di determinate scene “estreme” (dai continui riferimenti razzisti nei dialoghi alla violenza cruda e, per certi versi, persino gratuita degli intermezzi filmati o delle scene in cinematica).
Le peculiarità uniche dei singoli componenti della squadra offrono però un valido pretesto ai Techland per sviluppare una solida componente cooperativa e un’altrettanto ricca galassia di impostazioni di gioco inedite, ma di questo ci occuperemo con calma nei seguenti capitoli di questa recensione.
RIDATEMI IL VECCHIO WEST!
Una delle caratteristiche più apprezzate dai giocatori di Bound in Blood era la possibilità di scegliere di intrepretare liberamente Thomas o Ray McCall per plasmare l’esperienza di gioco secondo le proprie personali esigenze: con The Cartel, gli sviluppatori estremizzano il concetto per rendere ancor più customizzabile il gameplay e persino il canovaccio narrativo.
Ogni personaggio interpretabile nella campagna principale, sia per il tipo di addestramento compiuto che per l’esperienza maturata sul campo, è infatti specializzato nell’utilizzo di determinate armi e arti di combattimento corpo a corpo: se ad esempio Kimberly Evans predilige i fucili di assalto e quelli di precisione, Eddie Guerra ha nel suo arsenale solo armi automatiche, fucili a pompa e granate, mentre quel vecchio trombone di Benjamin McCall dimostra di essere più pericoloso dei suoi colleghi più giovani utilizzando indistintamente attacchi da mischia, pistole e armi pesanti.
La rosa di armi e di stili di gioco va poi ampliandosi a dismisura all’aumentare del proprio livello personaggio: alla fine di ogni missione, infatti, un sistema di punteggio dinamico assegna un valore numerico alla prova compiuta dal nostro alter-ego per permetterci di comprare nuovi potenziamenti e di sbloccare armi avanzate. Utilizzando questo espediente, però, gli sviluppatori deprimono la natura stessa della campagna principale relegando le singole missioni al ruolo di semplici obiettivi secondari di una narrazione che, così facendo, risulta essere slegata da qualsiasi contesto.
Un’altra grave lacuna del progetto è poi rappresentata dall’abbandono del sistema di coperture dinamiche, una delle peculiarità meglio riuscite dei passati episodi della saga: l’impossibilità di utilizzare le sporgenze artificiali e naturali per schivare i proiettili nemici va poi ad aggiungersi alla rabbia per il respawn precalcolato dei gruppi di avversari, al fastidio per lo sconclusionato utilizzo della modalità “Concentrazione” (un bullet time legato a una barra di energia) e alla frustrazione per l’innaturale sistema di puntamento (reso ancora più deprimente dal precario sistema di movimento).
Gli unici aspetti della struttura di gioco di The Cartel che si mantengono a un livello qualitativo accettabile sono quelli relativi alla componente cooperativa, la vera ragion d’essere dell’intero progetto.
MULTIPLAYER
Lo sconclusionato canovaccio narrativo e il lacunoso gameplay di The Cartel possono essere apprezzati solo ed esclusivamente online, decidendo di lanciarsi all’avventura assieme ad uno o ad altri due utenti in Rete in una speciale modalità cooperativa strutturata attraverso un ingegnoso sistema escogitato dai Techland: quest’ultimo prevede infatti l’utilizzo di un parcheggio come una sorta di “sala d’attesa interattiva” in cui poter rintracciare giocatori disposti a intraprendere le missioni indossando gli scomodi panni di uno dei tre poliziotti della squadra.
In Rete, così come in singleplayer, il sistema di gestione del punteggio tiene conto di tutte le azioni compiute dalla nostro team calcolando le uccisioni, i colpi sparati e persino le volte in cui siamo riusciti a salvare un nostro compagno: ciò va naturalmente a vantaggio dell’esperienza di gioco e ci consente, per la prima volta, di apprezzare le scene di intermezzo offerteci dagli sviluppatori nonostante la rappresentazione estremamente caricaturale delle forze di polizia e dei criminali.
Ben più lontane dalla campagna, grazie al cielo, troviamo poi altre modalità multigiocatore a metà strada tra l’esperienza in cooperativa e quella puramente competitiva: in “Robbery Crew” una banda di criminali dovrà tentare di svaligiare una banca stando attenta ai poliziotti del team avversario, in “Star Witness” una squadra deve proteggere un VIP (capitano di polizia o boss della malavita organizzata che sia) dagli assalti della squadra avversaria, in “Cartel Deal” dovremo cercare di sopravvivere per il maggior tempo possibile agli assalti in furgone e in elicottero degli uomini del cartello di Mendoza. A tutto questo va poi ad aggiungersi l’onnipresente modalità Team Deathmatch che, come potrete facilmente immaginare, vedrà scontrarsi i trafficanti e le forze di polizia in partite 6 contro 6 all’ultimo sangue.
In maniera non troppo dissimile dai potenziamenti di Bound in Blood, all’interno del mondo di gioco di The Cartel si può inoltre migliorare l’arsenale e l’aspetto del proprio personaggio avanzando di livello e compiendo determinate azioni nelle 8 mappe multiplayer a nostra disposizione. Certo è che, se nel caso di Bound in Blood il numero di giocatori rintracciabili in Rete è calato drasticamente nel giro di poche settimane, con The Cartel trovare giocatori di buona volontà per sperimentare le partite cooperative o per darsi alla pazza gioia nelle sessioni competitive sarà un vero e proprio miracolo.
GRAFICA E SONORO
È davvero sconvolgente constatare come Call of Juarez: The Cartel, dal punto di vista squisitamente tecnico, non riesce a superare in nessun ambito il suo diretto predecessore. Pur non essendo uno dei titoli graficamente più rappresentativi di questa generazione, Bound in Blood aveva almeno il pregio di essere coerente con l’ambientazione western e di offrire missioni molto eterogenee e variegate: The Cartel, al confronto, è un polpettone scenograficamente insipido di cliché hollywoodiani e di mappe ispirate quanto quelle di un film di serie B. La ricerca artistica compiuta dai Techland in passato per proiettarci in un universo di gioco storicamente credibile, con questa loro nuova opera si perde del tutto per lasciare il passo a luoghi anonimi (dai vicoli di Los Angeles alle foreste di conifere, fino ad arrivare ovviamente ai deserti) per giunta realizzati in modo molto approssimativo.
L’impiego della quinta generazione del motore grafico proprietario Chrome Engine, inoltre, paradossalmente finisce col pregiudicare la “pulizia” degli ambienti e, quindi, il loro realismo: il pesante utilizzo dei filtri grafici, ad esempio, cala una nebbia persistente sul mondo di gioco appiattendo il tutto senza lasciarci percepire il senso della profondità (portandoci così a mirare con estrema difficoltà), una scelta dettata probabilmente dalla necessità dei programmatori di coprire le piatte texture che mappano la superficie degli ambienti esterni e dei nemici. In questo florilegio di errori grossolani, la presenza di animazioni poco reattive e di personaggi dai modelli poligonali ai limiti del ridicolo diventa persino ininfluente.
Ben più elevato è invece il tenore qualitativo del comparto sonoro, apprezzabile in ogni suo aspetto anche grazie alla presenza di un doppiaggio in italiano molto ben realizzato e in grado di seguire con coerenza i saliscenti emotivi dei violenti dialoghi scritti dagli autori (così estremi da aver indotto il governo del Messico ad avanzare più di una critica sull’utilizzo gratuito, nei dialoghi del gioco, di turpiloquio e di parolacce velate di razzismo).
COMMENTO FINALE
Potremmo girarci attorno ma, a costo di sembrare rudi, preferiamo andare diritti al cuore della questione: The Cartel è un esperimento fallimentare che non rende assolutamente giustizia alla bravura dei ragazzi che ne hanno avuto in incarico lo sviluppo da parte di Ubisoft, una bravura dimostrata in passato con i precedenti episodi di questa storica saga.
Per l’improvvida scelta di abbandonare il selvaggio West in favore di un’anonima ambientazione moderna, e ovviamente per gli svarioni compiuti nella realizzazione della struttura di gioco, i Techland purtroppo non riescono a compiere il miracolo riuscito a suo tempo con Bound in Blood nonostante siano stati in grado di dare alla luce una solida modalità cooperativa che, però, proprio in virtù delle criticità del gameplay e della trama evidenziate in questa recensione è destinata a diventare molto presto una cattedrale nel deserto, anche per via dell’esodo di appassionati che, con tutta probabilità, lasceranno questo titolo non appena capiranno che non c’è nulla in comune tra The Cartel e i due passati capitoli di Call of Juarez.
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