Tralasciando l’esperimento di Shadows of the Damned compiuto nel 2011 con l’amico Suda51, il periodo di “allontanamento autoimposto” di Shinji Mikami dal genere dei survival horror lambisce il decennio, se consideriamo che il suo ultimo impegno nella saga di Resident Evil coincide con il lancio, nel 2005, del quarto capitolo “maggiore” di una serie che da allora, e non a caso, ha smarrito la retta via scivolando maldestramente verso gli sparatutto.
L’entusiasmo dato dal ritorno del maestro giapponese con l’annuncio di The Evil Within ha accompagnato l’intero processo di sviluppo di questa nuova proprietà intellettuale firmata da Tango Gameworks e Bethesda Softworks: le dichiarazioni rilasciate a più riprese dallo stesso Mikami hanno poi contribuito ad alimentare in maniera spasmodica le speranze e le attese di un pubblico di affezionati cultori di thriller psicologici.
Per il papà della serie di Resident Evil, più che del suo impegno in prima persona c’era estremo bisogno di qualcuno che ritornasse a coltivare le verdi e sanguinolente praterie digitali dei giochi horror inariditesi col tempo per colpa della strada intrapresa da tutti gli altri attori dell’industria, e a giudicare dalla terrorizzante esperienza che abbiamo vissuto nelle ore di gioco che abbiamo passato su PlayStation 4 indossando i panni dello sfortunato eroe di The Evil Within non possiamo che dargli ragione, come cercheremo di illustrare in maniera approfondita nel corso della recensione che vi proporremo quest’oggi assieme alla relativa scheda voto che riassume e anticipa gli argomenti principali trattati nella nostra analisi.
COSA CI PIACE
Atmosfera da incubo
Tra palazzi che si sgretolano al passaggio del nostro alter-ego a villaggi nebbiosi popolati da mostri urlanti che attendono nell’ombra di saltarci addosso per cibarsi dei tessuti molli del povero Sebastian Castellanos, la scenografia digitale di The Evil Within è un circo dell’orrore edificato sulle fantasie più malsane e truculente di un diavolo fuggito dal più sanguinolento dei gironi dell’Inferno.
Folle e sconnesso, l’universo estetico dell’ultima parabola horror di Mikami stringe l’azione di gioco in una morsa di dolore e desolazione: il passaggio senza soluzione di continuità dalle aree all’aperto ai luoghi al chiuso, e da questi ultimi alla dimensione onirica in cui il protagonista può evolvere i suoi poteri seguendo un rigido programma di sedute di elettroshock (!!!), spiazza l’utente e lo lascia in balia degli eventi come un bimbo appena nato caduto preda di un branco di lupi.
Più del personaggio interpretabile e dei dimenticabilissimi attori secondari che gravitano attorno alle vicende vissute da Sebastian lungo tutta l’avventura in singolo, quindi, è la dimensione demoniaca in cui veniamo catapultati la vera star di The Evil Within.
Gameplay ben strutturato
Le meccaniche di gioco di The Evil Within poggiano sulle solide fondamenta rappresentate dal modulo sparatutto dei primissimi action in terza persona, dall’arcaica esplorazione dei livelli offerta dalle avventure stealth e dalla lenta e ponderata evoluzione dell’equipaggiamento dei survival “classici”, basati cioè sulla pura e semplice ricerca degli oggetti e delle armi da utilizzare per proseguire nella storia.
Fatta eccezione per i capitoli più lineari e “immediati” della trama, quasi tutti gli aspetti che caratterizzano l’esperienza di gioco dell’ultimo progetto di Shinji Mikami descrivono visivamente un contesto di perenne pericolo, con l’utente costantemente combattuto dalla volontà di abbattere velocemente i nemici per raggiungere l’obiettivo designato e dalla necessità di risparmiare munizioni, medikit e punti esperienza spendibili in potenziamenti delle abilità principali. Ballando tra la disperazione e la follia, il gameplay di The Evil Within premia coloro che cercano di risolvere i problemi senza un utile dispendio di energie (e di proiettili) e, di contro, punisce severamente gli utenti più “frettolosi”.
I movimenti del personaggio, ad esempio, sono “pesanti” come il fardello psicologico che deve sostenere Sebastian per tutta la durata dell’avventura e riflettono la precaria condizione vissuta dall’eroe, accentuando il significato stesso di ciascuna mossa compiuta dal nostro alter-ego per evitare le trappole, affrontare i mostri e trovare delle valide vie di fuga prima di cadere preda del nemico di turno.
Longevo e impegnativo
Il quantitativo di munizioni, di fiammiferi, di fiale curative e di parti di trappole risparmiato alla fine di ciascun livello è la vera discriminante della difficoltà di The Evil Within, dato che nelle zone più ostiche (dalle aree con un numero di nemici superiore alla norma ai frangenti degli scontri con i boss maggiori e i mostri ricorrenti) la disponibilità di armi e di medikit può semplificare di molto la vita al nostro impavido alter-ego. In base all’approccio adottato e alla nostra voglia di sfidare i mostri disseminati sulla mappa per esplorare l’ambientazione e raccogliere quanti più oggetti possibile, infatti, il tempo di gioco passato tra le quattro mura virtuali dell’ultima creatura horror di Mikami può oscillare dalle 10 alle 17 ore (che diventano addirittura 20 o 22 se si decide di impostare e mantenere per tutta la partita un livello di difficoltà pari o superiore a “Sopravvivenza”).
Se la vita di Sebastian è legata alla nostra bravura nella gestione dell’inventario e dell’equipaggiamento, però, la longevità “effettiva” del titolo viene determinata dalla capacità del giocatore di “organizzare” i salvataggi nei diversi slot offertici dai Tango Gameworks: l’assenza di un menù per selezionare liberamente i capitoli della storia già superati, infatti, ci obbliga “psicologicamente” a tenere traccia del nostro percorso e a non sovrascrivere i capitoli più duri per ritornarci ed evitare, così facendo, che gli errori commessi in precedenza pregiudichino il nostro percorso sino ai titoli di coda. Viceversa, completare il gioco ai livelli di difficoltà più elevati risulta essere un vero e proprio incubo, un esercizio di frustrazione e di vera e propria “tortura videoludica” che non consiglieremmo neanche al nostro peggior nemico.
COSA NON CI PIACE
Più survival che horror
Nel frastagliato panorama dei videogiochi horror, The Evil Within si colloca idealmente a metà strada tra l’azione trascinante di Resident Evil 4 e l’angosciante inferno di follia del secondo capitolo della saga di Silent Hill.
La strada tracciata dai designer e dagli autori di Tango Gameworks per comporre il puzzle narrativo dell’ultima creatura di Mikami segue infatti un percorso tortuoso che lambisce a fasi alterne gli splatter e i thriller psicologici, finendo però con lo scontentare i fan dell’uno e dell’altro genere videoludico.
Dal punto di vista strettamente narrativo e “scenografico”, infatti, The Evil Within non fa paura e non trasmette quel senso di angoscia e di terrore che ci saremmo aspettati di provare in un simile titolo: gli sforzi profusi dagli uomini di Mikami vertono tutti sul pathos dell’azione di gioco, sull’intensità emotiva degli scontri con i boss di fine livello e sul disagio provocato dalla consapevolezza di essere perennemente braccati da un nugolo di zombie, di mostri e di psicopatici capaci di ucciderci con un sol colpo.
Qualche sbavatura tecnica di troppo
La natura crossgenerazionale di un titolo sviluppato con un motore grafico relativamente poco studiato (l’id Tech 5 tenuto a battesimo nel 2011 con lo sfortunato RAGE) e destinato a girare su sistemi molto diversi come PC, PS3, X360, PS4 e XB1 dimostra e, in parte, giustifica le difficoltà riscontrate dagli sviluppatori di Mikami nel dare forma alle vulcaniche idee del loro geniale designer capo.
Passando dai capitoli più “sperimentali” e lineari a quelli più aperti e votati al puzzle solving della storia di The Evil Within, inoltre, si percepisce netta la sensazione che qualcosa, nel corso del lungo processo di sviluppo, sia andata storta per colpa dell’engine impiegato e della vocazione multipiattaforma del titolo: delle stanze in grado di cambiare forma e dimensioni in base alle scelte compiute dall’utente nel prosieguo della trama, promesseci dallo stesso Mikami nelle prime fasi di sviluppo del progetto, non è rimasto assolutamente nulla, eccezion fatta per le sequenze scriptate, le scene in cinematica, le ricorrenti “sezioni-elettroshock” all’interno del manicomio e i frangenti “pilotati” degli scontri contro i boss maggiori.
Solo il magistrale impiego dei giochi di luci ed ombre, dei filtri cromatici e dell’audio posizionale da parte dei Tango Gameworks permette al titolo di mantenersi a livelli esteticamente accettabili su PC e piattaforme current-gen, anche se in quest’ultimo caso dobbiamo necessariamente riferirvi di un fastidioso problema di framerate che, comunque, dovrebbe essere risolto tramite una patch.
A tratti frustrante e punitivo
The Evil Within è uno di quei titoli che, in concomitanza con le scene di gioco più accese e difficili da superare, induce nell’utente il desiderio irrefrenabile di lanciare il mouse o il joypad dalla finestra più vicina e nel modo più fragoroso possibile.
La natura a mondo aperto dei livelli basati sulla risoluzione degli enigmi e la raccolta di armi e oggtti è ingannevole come la propria sagoma riflessa da uno specchio stregato: la necessità improrogabile di esplorare le zone più pericolose della mappa per fare incetta di munizioni da risparmiare per le battaglie da combattere successivamente con i nemici più forti o con i mostri ricorrenti ne è una chiara dimostrazione.
Chi si approccia al titolo pensando di poter affidarsi alla sua esperienza per andare dove vuole e uccidere tutti gli zombie e gli psicopatici visualizzati a schermo firma la condanna a morte immediata del proprio povero alter-ego… e questo nel migliore dei casi. Perchè nel peggiore, ossia quando si riesce a superare un capitolo della storia senza una valida scorta di oggetti curativi, di munizioni e di punti esperienza da spendere in potenziamenti delle abilità, si cade inevitabilmente vittima del punitivo sistema di salvataggio delle aree con il maggior numero di nemici, di trappole e di puzzle, da qui l’infinita frustrazione causata dalla consapevolezza di aver sperperato le munizioni e i medikit necessari per avere qualche speranza di sopravvivenza nei livelli più impegnativi.
CONSIDERAZIONI FINALI
The Evil Within è un titolo angosciante e sorprendente, un survival horror “vecchia scuola” che spiazza il giocatore e non fa nulla per metterlo a proprio agio. La totale assenza di punti di riferimento restituisce una sensazione di perenne smarrimento, la ruvida rappresentazione di un gameplay orientato alla pura sopravvivenza tiene alti i livelli di adrenalina per tutta la durata dell’avventura e la frastagliata architettura dei livelli contribuisce a rendere ancora più caotico e illogico un canovaccio narrativo che sembra scritto da un branco di scimmie urlatrici sotto effetto di sostanze psicotrope.
Aspro, impegnativo e fedele fino alla frustrazione alle meccaniche di gioco imposte da Shinji Mikami e dai Tango Gameworks al suo seguito, The Evil Within è il prodotto di un’epoca remota che necessita dell’esperienza maturata negli anni dagli appassionati più maturi e smaliziati di videogiochi votati alla tensione e al thrilling per poter essere affrontato nella maniera più appropriata. Il terrore dato dalla gestione anacronistica (ma maledettamente simulativa) delle munizioni e degli oggetti curativi fa più male dei colpi inferti dal mostro di turno, con buona pace di chi ama sobbalzare dalla sedia scappando da fantasmi che, nella dimensione disturbante di The Evil Within, fanno decisamente meno paura del dover ripetere per l’ennesima volta una zona lasciata in ombra (in tutti i sensi) dal punitivo sistema di salvataggio.
Per questo, non possiamo che concludere la nostra recensione consigliando l’acquisto di The Evil Within solo ed esclusivamente ai videogiocatori hardcore e a chi ama cimentarsi con le sfide più impegnative.