Consci della necessità di dover svecchiare la saga di Medal of Honor per mantenere gli alti standard qualitativi richiesti dalla ferocissima concorrenza degli sviluppatori di sparatutto in prima persona su PC e console ad alta definizione, le alte sfere di Electronic Arts hanno deciso di cogliere al volo l’occasione per “attualizzare” la loro serie sia dal punto di vista tecnico che prettamente “narrativo”: abbandonato (forse per sempre) il teatro storico della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, EA ci catapulta nel bel mezzo dell’inferno polveroso dell’Afghanistan centrale per farci rivivere con gli occhi dei soldati mandati al fronte le fasi iniziali della “Guerra al Terrorismo” scatenata dal governo degli Stati Uniti e dai suoi alleati in risposta al tremendo attacco che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle di New York e i grattacieli nel comprensorio del World Trade Center (senza mai dimenticare gli attentati a Madrid, a Bombay e a Londra avvenuti negli anni successivi).
Sono passati venti giorni dalla commercializzazione del titolo e le polemiche sul “soggetto letterario” scelto da Electronic Arts non si sono ancora placate: lungi però dal voler intervenire direttamente sullo spinoso argomento, decidiamo di concentrarsi sugli aspetti prettamente videoludici dell’opera e cerchiamo di analizzare a mente fredda tutto ciò che gli statunitensi di Danger Close e gli svedesi di DICE hanno fatto per rendere il loro Medal of Honor un prodotto in grado di soddisfare le richieste e le esigenze dell’utenza e, naturalmente, di reggere all’onda d’urto delle polemiche eterne che accompagnano ciclicamente l’avvento sul mercato di prodotti d’intrattenimento dal tema scottante o dal contenuto sensibile.
DAI CRUCCHI DEL ’40 AI TALEBANI DEL 2000
L’intera esperienza di gioco della campagna in singolo verte attorno alla controversa operazione “Enduring Freedom”, lanciata nel 2001 dagli Stati Uniti e dalle forze alleate per tentare di stanare le roccaforti di Al-Qaeda tra le impervie montagne rocciose dell’Afghanistan controllato dal regime dei Taliban. Non potendo offrire un quadro d’insieme dell’intera guerra sia per via della precarietà di informazioni arrivateci dal fronte in questi anni, sia purtroppo perchè il conflitto non si è ancora concluso, gli ex EA Los Angeles hanno volutamente scelto di scremare la componente “spettacolare” delle battaglie in favore di un approccio più intimistico e personale: per riuscire nell’impresa si è così deciso di raccogliere meticolosamente i racconti offertici dai soldati ritornati dal fronte, riproponendoli successivamente sottoforma di missioni intrecciate le une alle altre fino a formare l’intricato ma appassionante dedalo di compiti postici dalla campagna singleplayer di Medal of Honor.
Similarmente alla famosa saga di Gearbox Software Brothers in Arms, quindi, Medal of Honor decide di rappresentare videoludicamente gli scontri a fuoco non dal punto di vista terzo di un ipotetico osservatore che dall’alto è in grado di scegliere autonomamente i momenti più “animati” della battaglia, ma da quello personale e volutamente “parziale” degli esperti incursori inglesi e degli appartenenti ai reparti speciali Tier 1, composti dai migliori soldati dei vari corpi d’elite dell’Esercito e della Marina USA: da ciò ne consegue che per tutta la durata della campagna in singolo saremo chiamati a cambiare spesso personaggio utilizzato e, in base al’esperienza maturata sul campo e dalla tipologia di missione da portare a termine, la strategia adottata fluidamente dalla propria squadra per risolvere i compiti affidatici di volta in volta dai superiori.
Al ritmo intenso e frenetico delle missioni e alla varietà delle operazioni di infiltrazione, esplorazione, recupero, difesa e soccorso proposteci, fanno però da triste contraltare la scarsissima intelligenza artificiale manifestata dai nemici (e limitatamente anche dai propri compagni) così come l’altrettanto scarsa longevità della campagna in singolo che, anche ai livelli di difficoltà più elevati, mostra i titoli di coda già dopo poco meno di 6-7 ore di gioco.
SUL CAMPO DI BATTAGLIA
Se da un lato l’approccio intimistico e personale della trama della campagna in singolo riesce a caratterizzare fortemente ogni singola missione rispetto alle altre, dall’altro lato permette agli sviluppatori di variare sul tema classico della saga per regalarci una giocabilità diametralmente opposta rispetto a quella sperimentata nei precedenti capitoli “a tema storico” di Medal of Honor. Abbandonati gli spazi aperti di Frontline (con l’indimenticabile sbarco in Normandia del ’44) e la forte componente esplorativa del più recente Airborne, gli sviluppatori di Danger Close hanno giustamente pensato di accompagnare la narrazione del singleplayer con azioni estremamente lineari, dal moderato tasso tattico-strategico e con una forte predisposizione al realismo scenico prima ancora che alla spettacolarità (specie nella modalità hardcore “Tier 1”, espressamente dedicata a chi ama il rischio e la simulazione spinta).
In ragione dei profondi mutamenti attuati nell’impianto di gioco dalla sussidiaria losangeliana di Electronic Arts, quindi, Medal of Honor bagna l’immediatezza degli FPS simili con una pioggia cruda di aggiunte tattiche, cominciando dagli ordini di squadra impartibili per aggirare una cellula nemica asserragliata all’interno di un casolare diroccato fino ad arrivare all’adrenalinico sistema che ci permette di “agganciare” una copertura correndo verso di essa per non essere troppo esposto al fuoco nemico.
Un altro elemento che merita di essere assolutamente citato è il “peso specifico” delle armi e persino dei singoli proiettili: seguendo il consiglio dei soldati che hanno collaborato attivamente alla realizzazione del titolo attraverso il loro scrupoloso racconto delle azioni e dei compiti svolti sul teatro di battaglia afghano, i Danger Close (nella componente in singolo) e i DICE (nel multigiocatore) hanno provveduto a rimodulare l’efficacia del tiro istintivo con i fucili a lungo raggio, delle raffiche con le armi a media gittata e dei semplici fendenti con il coltello secondo un metro di giudizio il più possibilmente fedele alla realtà: la conseguenza diretta di tutto ciò è che durante una missione qualsiasi della campagna o in una partita online, chi vorrà sbarazzarsi del nemico di turno nel modo più veloce possibile dovrà ponderare con attenzione il tipo di arma utilizzata per offendere l’avversario ma anche il “modo” più efficiente da adottare per fare in modo che i colpi sparati arrivino a colpirlo a prescindere dalla posizione visualizzata in quel momento dal mirino sullo schermo (specie se si ha la necessità di sparare ad un obiettivo mentre si sta scattando).
MULTIPLAYER
Come ben saprà chi ha seguito assieme a noi lo sviluppo del titolo in questi mesi, l’impianto multiplayer di Medal of Honor è stato realizzato dagli studi svedesi di DICE in totale indipendenza dalla campagna in singolo prodotta contemporaneamente dall’altra parte del globo dai Danger Close: oltre che per accelerarne la commercializzazione, tale scelta è stata suggerita ad EA dall’infinita esperienza maturata in questi anni nell’ambito dei titoli multigiocatore dall’autorevole sussidiaria con sede a Stoccolma che ha dato i natali alla saga di Bad Company.
Nella sua componente multigiocatore, Medal of Honor propone una variazione del sistema di crescita personaggio del famoso spin-off di Battlefield sullo sblocco di armi, “perk di classe”, gadget, mirini ed innesti aggiuntivi in relazione al punteggio ottenuto in battaglia e all’esperienza specifica maturata nel tempo di utilizzo di una delle tre classi proposte (Rifleman, Special Ops e Sniper), manifestandosi attraverso il rilascio ciclico di nastri e medaglie a testimoniare il raggiungimento di un determinato obiettivo secondario (“Uccidi tot nemici con le granate”, “Gioca tot partite online”, eccetera eccetera…).
Una volta scelta la fazione da interpretare virtualmente in Rete tra la coalizione occidentale o la più generica “forza di opposizione” (fino a pochi mesi fa identificata come “Talebani”, ma cambiata in corso d’opera per allentare le proteste avanzate dai media anglofoni e da diversi politici inglesi e americani), il titolo propone quattro modalità di gioco distinte: il classico deathmatch a squadre, Sector Control (in cui ci verrà richiesto di colpire i nemici all’interno della loro area di controllo), Combat Mission (una spettacolare modalità che combina la risoluzione dei vari obiettivi indicatici dalla CPU con un canovaccio narrativo simile a quello della campagna in singolo) ed Objective Raid (anch’essa, come Sector Control, caratterizzata da missioni specifiche da superare mentre i nemici cercano di metterci i bastoni tra le ruote).
GRAFICA E SONORO
Dal punto di vista squisitamente tecnico, la natura duale del progetto non mina in alcun modo l’aspetto complessivo della grafica ma, anzi, riesce ad accentuarla proprio in virtù della differente esperienza di gioco propostaci in singolo dai Danger Close e in Rete dai DICE: se l’utilizzo che i primi riescono a fare dell’Unreal Engine 3 enfatizza magnificamente gli ambienti chiusi delle varie operazioni condotte dai Tier 1 e dai loro colleghi inglesi, i ragazzi della casa di sviluppo svedese piegano il Frostbite Engine 1.3 al sacro volere degli utenti che, online, possono sognare le vette innevate dell’area montuosa dell’Afghanistan mentre organizzano un assalto di squadra per sfondare le linee nemiche. Sempre per quanto riguarda il comparto grafico, non possiamo che trovare negli effetti particellari, nei filtri grafici e nelle animazioni i punti di forza della versione PC così come di quella X360-PS3, con l’altalenante qualità delle texture ambientali e della rappresentazione stilistica dei fondali in lontananza a fare invece da note dolenti di un’opera che però, nel suo complesso, si assesta comunque su livelli d’eccellenza.
Di analogo tenore sono le considerazioni entusiastiche che possiamo fare sul comparto audio dell’opera, partendo naturalmente dal lavoro sontuoso svolto in sede di doppiaggio fino ad arrivare alla strepitosa colonna sonora rockeggiante che accompagna dinamicamente le adrenaliniche azioni della campagna in singolo, contribuendo in questo modo ad aumentarne il pathos narrativo.
COMMENTO FINALE
Il gigantesco sforzo profuso dagli sviluppatori di Danger Close e DICE per riportare la saga di Medal of Honor ai fasti di un tempo è certamente servito per ridare lustro alla serie ma, nonostante il magnifico tratto intimistico della campagna in singolo e il granitico impianto multigiocatore, non aggiunge nulla di nuovo al genere nè dal punto di vista artistico nè tantomeno da quello squisitamente videoludico, limitandosi così a seguire la scia della concorrenza diretta (Call of Duty) e indiretta (Battlefield: Bad Company). Cionostante, Medal of Honor risulta essere comunque un prodotto avvincente, emozionante ed insolitamente longevo (per la rigiocabilità della seppur breve campagna in singolo e naturalmente per l’online), una base solida da cui Electronic Arts potrà ripartire nei prossimi anni per arricchire di ottimi contenuti un ipotetico seguito.
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