Il momento della verità è finalmente giunto: dopo tre lunghi anni di sviluppo ininterrotto da parte dei 170 programmatori, disegnatori e sceneggiatori impegnati da Bungie per salutare nel migliore dei modi la saga di Halo (che, come ben saprete, d’ora in avanti sarà di competenza esclusiva di Microsoft), la storica casa di Chicago è così pronta a stravolgere la vita degli abitanti della giovane colonia umana di Reach e, contemporaneamente, l’autunno videoludico di milioni di utenti Xbox 360.
Quasi come la scintillante armatura di un Elite d’alto rango, Halo: Reach promette di essere un prodotto completo, poliedrico e cangiante, capace cioè di offrire infinite opportunità di gioco e di assurgere al ruolo di esperienza definitiva per tutti coloro che, dall’ormai lontano 2001, seguono la durissima battaglia intrapresa dai valorosi soldati della UNSC e dagli eroici appartenenti al programma Spartan per difendere il genere umano dalla spaventosa minaccia rappresentata dall’alleanza aliena dei Covenant.
Se siete ansiosi di analizzare assieme a noi le caratteristiche salienti di questo papabile capolavoro, o se volete semplicemente capire fin dove sono riusciti a spingersi i ragazzi di Bungie sviscerando ogni più piccolo aspetto della loro attesissima opera, non dovete fare altro che seguirci dopo la pausa.
REMEMBER REACH
Esattamente come l’ultimo spin-off con protagonista un’impacciata recluta delle Truppe d’Assalto Orbitale (ODST), la campagna principale di Halo: Reach non prosegue la narrazione della battaglia tra gli umani e i Covenant, che quindi rimane cronologicamente ferma alle tumultuose vicende conclusive di Halo 3, ma si “limita” a riempire uno dei tanti vuoti storici della linea temporale della saga (tralasciando ovviamente la Graphic Novel e i libri).
Siamo infatti nel 2552, pochi mesi prima dell’invasione della Terra da parte dei Covenant (e qui ritorniamo ad Halo 3: ODST) e della scoperta della misteriosa Installazione 04 da parte di Master Chief (causa scatenante di Halo: Combat Evolved): come è facilmente intuibile sin dal titolo, il teatro degli eventi narrati nell’avventura in singolo di quest’ultimo capitolo della serie firmato dai ragazzi di Bungie è Reach, ossia la famosa colonia umana che qualche decennio prima diede i natali all’avveniristico Progetto Spartan, consistente nel traumatico potenziamento del patrimonio genetico di alcuni soldati per limitare in qualche misura il gap fisico con le possenti razze aliene utilizzate dai Covenant come fanteria pesante (ad esempio i Brute, gli Elite o, peggio ancora, gli Hunter).
Ed è proprio un appartenente alla “famiglia” degli Spartan (in questo caso di terza generazione) colui che saremo chiamati ad impersonare per sostituire il sesto membro di un gruppo di soldati scelti di stanza a Reach e conosciuto come Team Noble: a differenza degli eroi solitari protagonisti dei precedenti capitoli della saga, quindi, stavolta potremo contare sul sostegno di un’intera squadra di valorosi compagni, con tutto ciò che in termini narrativi e puramente videoludici potete facilmente immaginare.
Adottando questo splendido espediente, infatti, per la prima volta nella serie riusciremo a cogliere il lato umano degli Spartan (odiati dai terrestri “normali” per un incidente accorso involontariamente a Master Chief e a quattro soldati dell’ODST nella dolorosa fase di assestamento fisiologico dopo il trattamento genetivo intensivo), grazie anche alle lunghe sequenze in cinematica che aprono e chiudono ogni singolo capitolo della campagna con importanti dialoghi e, soprattutto, con scene a dir poco commoventi.
CHE LA GUERRA ABBIA INIZIO
La novità assoluta rappresentata narrativamente dall’obbligo di proseguire nell’avventura lavorando in squadra assieme ad altri cinque membri (siano essi gestiti dall’intelligenza artificiale o, ancora meglio, da amici in Rete), è una caratteristica che, presa singolarmente, funge da magnifico volano per la realizzazione di una campagna in singolo estremamente varia ed insolitamente longeva (ai livelli di difficoltà più elevati si arriva anche alle 15 ore complessive, quindi ben più dei due precedenti episodi della serie e, più in generale, della media degli sparatutto in prima persona di questa generazione).
Pur senza aggiungere nulla al suo genere di riferimento in termini di innovazioni stilistiche e di caratteristiche prettamente “ludiche”, la campagna principale di Halo: Reach non mostra mai il fianco alla monotonia e alla noia ed offre un mix sapiente di missioni di esplorazione pura, di conquista di basi nemiche, di difesa di postazioni civili prese d’assalto dalle truppe aliene e di sopravvivenza, a cui vanno necessariamente aggiunte le pirotecniche sessioni spaziali per colpire in orbita gli incrociatori Covenant prima che raggiungano la superficie ed attuino il loro apocalittico attacco “vetrificante” (indirizzando cioè sul pianeta nemico dei flussi giganteschi di plasma per renderlo completamente inospitale con la disintegrazione delle città avversarie e, soprattutto, con l’evaporazione degli oceani).
Gli enormi sforzi compiuti da Bungie nel rimodulare completamente l’esperienza in singolo della loro opera (specie in funzione delle critiche mossegli giustamente dagli utenti e dalla critica prima con l’uscita di Halo 3 e poi con quella dello spin-off ODST) seguono in parallelo le numerosissime novità apportate all’impianto di gioco, cominciando dal raffinato sistema di equipaggiamenti chiamato Abilità dell’Armatura fino ad arrivare alle armi inedite.
In virtù della loro appartenenza agli Spartan III (tranne Jorge-052, l’unico Spartan II del gruppo), il Noble Team può infatti indossare una corazzatura di classe talmente avanzata da permettergli di utilizzare dei piccoli moduli intercambiabili in grado di garantirgli abilità inedite nel panorama dei titoli della serie: differentemente dal’eroe della “trilogia principale” di Halo, invece, il nostro giovane Noble Six e i restanti membri del gruppo saranno obbligati ad utilizzare i medipack sparsi per la mappa per reintegrare l’energia spesa (il leggendario John-117, seppure fosse di una generazione Spartan inferiore ed avesse una corazza Mjolnir meno performante, poteva infatti vantare il supporto iper-tecnologico di Cortana).
In base alle esigenze (e naturalmente alla loro disponibilità sul campo di battaglia), potremo così donare al nostro energumeno di due metri e mezzo l’abilità Scatto, Blocco Armatura (crea una mini-barriera energetica attorno al personaggio e lo protegge per pochi secondi dagli attacchi nemici, permettendogli di rigenerare gli scudi), Invisibilità (attivabile anch’essa per pochi secondi), Medico (crea uno bolla sferica che velocizza la rigenerazione degli scudi alleati), e JetPack (offre due retrorazzi per sorprendere i nemici dall’alto, per raggiungere postazioni difensive coperte o anche solo per proseguire nell’avventura saltando come rane tra una piattaforma e l’altra).
Parallelamente alle Abilità specifiche implementate perfettamente nel collaudatissimo impianto di gioco, assisteremo poi all’introduzione di armi inedite e di cari, vecchi “gingilli sputafuoco” già visti ed apprezzati nei precedenti capitoli di Halo: abbandonato del tutto il sistema che ci permetteva di impugnare due armi in contemporanea, si è provveduto a rivedere il danno, la portata e persino la destinazione d’uso dei fucili di precisione (sia umani che alieni) così come delle pistole e dell’equipaggiamento energetico dei Covenant, il tutto con lo scopo dichiarato di evitare la creazione di “super armi” capaci di prestarsi perfettamente ad ogni scopo (ci riferiamo naturalmente alla micidiale pistola ad aghi e al poliedrico fucile Marksman M392 a colpo singolo di Halo 3 ed ODST).
La conseguenza diretta di questa splendida scelta compiuta dagli sviluppatori di Chicago, è che d’ora in avanti (e specie ai livelli di difficoltà più alti) la quantità di danno arrecato al nemico di turno varierà in base alla razza e alla classe di appartenenza (tanto per fare un esempio, i veloci mezzi Covenant e i possenti Hunter saranno particolarmente vulnerabili al fucile di precisione terrestre e ai cannoni al plasma alieni più performanti, ma praticamente indistruttibili se colpiti con fucili mitragliatori “classici” o con granate al plasma).
A conclusione del paragrafo, non possiamo non citare la sopraffina intelligenza artificiale delle varie razze Covenant e, ahinoi, il pessimo sistema di guida con i messi terrestri, basato ancora una volta sul movimento dei due stick analogici che non permette di impostare con precisione la velocità e le manovre complesse (come l’aggiramento di una pattuglia di Grunt o l’esecuzione di una curva particolarmente stretta).
MULTIPLAYER
I punti di contatto tra la componente in singolo e quella multiplayer di Halo: Reach, numerosi come le stelle che brillano in una notte di mezza estate, fanno dell’opera un’esperienza a tutto tondo capace di scardinare in un sol colpo molti dei preconcetti che ci hanno accompagnato da quando il genere degli sparatutto in prima persona ha abbracciato gli stilemi e le regole dell’online. Pur essendo un titolo profondamente votato al gioco in Rete, infatti, la classica “linea” che demarca le due anime principali dell’opera, in Halo: Reach tende ad assumere la forma di un’onda che balla intrecciandosi tra le decine di modalità di gioco proposte per creare un qualcosa di unico, che muta col passare del tempo per assecondare i gusti, le esigenze e le richieste degli utenti.
Uno degli esempi più importanti è rappresentato dalla modalità “Sparatoria”: conosciuta con lo spin-off dedicato agli ODST ed ispirata all’Orda di Gears of War 2, con Reach assume dimensioni spropositate grazie soprattutto all’implementazione di tutta una serie di sotto-categorie capaci di variare di netto l’esperienza di gioco tra una partita e l’altra (basti cimentarsi anche solo una volta ad Apocalisse Grunt, a Difesa dei Generatori o a Sparatoria Classica per capire quanto sia estremamente diversificata l’offerta videoludica propostaci e il tipo di divertimento che se ne può trarre).
Accanto alla Sparatoria (e alla sempiterna campagna cooperativa) troviamo poi lo sconfinato dedalo di modalità competitive arricchite dal sistema di progressione e creazione dell’alter ego virtuale da utilizzare su Xbox Live: parallelamente ai punti esperienza che ci permettono di salire di grado, infatti, proseguendo nell’avventura o cimentandoci in una qualsiasi delle modalità multiplayer offerte potremo guadagnare dei crediti spendibili all’interno dell’Armeria per potenziare le singole parti dell’armatura dello Spartan III impersonato sia in singolo che in multi, oltre ovviamente alla corazza utilizzata dal soldato Elite che incarneremo online nelle occasioni in cui ci capiterà di stare dalla parte del nemico.
Tra le nuove tipologie di partita multigiocatore introdotte, citiamo Scorta (una variante del classico “Capture the Flag”, in cui ci è richiesto di raccogliere delle bandiere dalla zona nemica e di difenderle per un dato periodo di tempo fino a che non diventino proprie), Invasione (una sorta di spettacolare “mini-guerra” motorizzata tra una squadra di Spartan III ed un nugolo di Elite decisi a spazzare via gli odiati umani per recuperare un prezioso pacchetto dati) e Cacciatore di Teste (i giocatori devono portare dei teschi in una zona contrassegnata della mappa, stando attenti a non essere uccisi poichè, in quel caso, i teschi fino a quel momento collezionati e non ancora consegnati cadono a terra e rimangono alla mercè del nemico).
Per rendere l’esperienza videoludica ancora più unica ed “intima”, i saggi ragazzi di Bungie hanno implementato un salvifico sistema di ricerca ed indicizzazione delle sessioni online attive basato sulla tipologia di utenti connessi, dalla lingua parlata (finalmente si potrà scegliere di giocare solo con utenti italiani) al “carattere” (se non si vuole avere a che fare con persone particolarmente loquaci o, peggio ancora, dall’insulto e dallo sfottò facile, si può sempre chiedere al sistema di ignorare le partite con troppi elementi del genere).
Immenso è anche il lavoro svolto dagli sviluppatori di Chicago per migliorare la Fucina e tutto ciò che gravita attorno ad essa: oltre ad aver ingigantito lo spazio a disposizione dell’utenza per creare in libertà la propria mappa di gioco con gli obiettivi e le peculiarità desiderate, Bungie ha ottimizzato le risorse di sistema al punto tale da permetterci di inserire un volume di oggetti a schermo (dai ponti alle luci dinamiche) sensibilmente maggiore rispetto a quello disponibile in Halo 3, prendendosi persino il tempo di implementare un sistema per permettere a tutti gli “architetti virtuali” di fondere più oggetti tra di loro (o all’interno del terreno). A tutto questo, infine, non va assolutamente dimenticato il supporto massivo e costante alla comunità videogiocante online (attraverso il titanico sito ufficiale), una delle tante chicche che fanno di Halo: Reach il miglior FPS online mai creato.
GRAFICA E SONORO
Tecnicamente parlando, Halo: Reach entra a pieno diritto nell’Olimpo dei videogiochi più belli di tutti i tempi, merito soprattutto del lunghissimo processo di sviluppo artistico compiuto dai disegnatori dell’autorevole software house di Chicago. Oltre agli ormai proverbiali scorci mozzafiato che hanno reso celebre la saga sin dagli esordi sulla prima console targata Microsoft nel lontano 2001, alla vastità degli ambienti di gioco (anch’esso tratto distintivo della serie), agli effetti particellari di prim’ordine e alla magistrale regia delle missioni della campagna principale, ciò che davvero rende la nuova opera digitale di Bungie un gioiello d’arte contemporanea destinato ad essere ricordato negli anni a venire è la cura maniacale in tutto ciò che ha a che fare con l’impianto di gioco.
Dalla caratterizzazione delle armature indossate dal Noble Team alle ricchissime animazioni, fino ad arrivare alla peculiare foggia delle armi e degli ambienti alieni (questi ultimi, belli da togliere il respiro), tutto trova una sua collocazione nel contesto di gioco e contribuisce, al tempo stesso, a legittimare l’atipico stile artistico scelto dagli sviluppatori agli occhi di chi non riesce a “digerire” una palette di colori così accesa o, magari, l’aspetto simil-cartoonesco dei nemici e delle loro bizzarre astronavi violacee. Differentemente dalla stragrande maggioranza delle produzioni analoghe, la qualità grafica e tecnica espressa da Halo: Reach non si basa sulla semplicistica conta dei pixel che ricoprono il calcio del fucile del protagonista ma, piuttosto, dal modo in cui attraverso di essa si riesce a migliorare la rappresentazione e la realizzazione dei fasi di gioco vere e proprie, prova ne sia il sensibile aumento dei velivoli e dei nemici a schermo (che, rispetto ad Halo 3, sono più che raddoppiati). Tra le critiche che dobbiamo invece muovere in tal senso all’operato dei ragazzi di Chicago, non possiamo non esimerci dal citare i fastidiosi problemi di tearing e di “framerate ballerino” in occasione di partite in cooperativa o quando in visuale ci sono più di 25-30 nemici (tranne che nelle fulminee mappe in Sparatoria, che essendo relativamente piccole mantengono un framerate granitico).
Anche per quanto riguarda il comparto audio, i passi in avanti compiuti da Bungie rispetto a quanto propostoci negli anni passati sono evidenti e toccano l’opera nel suo complesso, dall’epica colonna sonora ai nemici che finalmente smettono di scimmiottare frasi in inglese e tornano ad emettere i suoni gutturali della loro lontana ed amata madrepatria. Anche il doppiaggio italiano risulta essere decisamente migliore rispetto a quello (francamente improponibile) di Halo 3.
COMMENTO FINALE
Il pregio più grande di Halo: Reach non è l’infinita serie di modalità ed opzioni offerteci, nè tantomeno l’estrema personalizzazione dell’esperienza videoludica in funzione dei personalissimi gusti dell’utenza, ma la sua capacità più unica che rara di catapultare il giocatore in un universo parallelo pulsante di vita in cui la parola “noia”, semplicemente, non ha motivo di esistere. La sontuosa alternanza tra gli spazi aperti e i luoghi chiusi, frutto di un profondo studio da parte degli sviluppatori, oltre che ad essere un magnifico stratagemma per variare l’azione garantisce all’opera una profondità strategica incredibile ed un impianto di gioco estremamente appagante per tutti gli amanti degli sparatutto in prima persona, rispondendo così a molte delle perplessità manifestate dagli utenti che in Halo 3 e nello spin-off dedicato ai soldati dell’ODST sono rimasti negativamente colpiti dalla brevità e dalla disomogeneità delle missioni in singolo.
Per la quantità, per la varietà e per la bellezza delle modalità proposteci, così come per l’incredibile lavoro compiuto in fase di realizzazione della campagna principale, della nuova impalcatura multiplayer e dell’infinito ventaglio di opzioni messe a disposizione dell’utente per personalizzare il tutto in base alle proprie esigenze personali, possiamo tranquillamente affermare che l’opera ultima di Bungie nella dimensione digitale e letteraria degli Spartan risulta essere un capolavoro completo ad appassionante, una monumentale opera d’arte videoludica destinata ad essere utilizzata negli anni a venire come metro di giudizio per tutti gli sparatutto in prima persona e, più in generale, per tutti i titoli che tenteranno di offrire un’esperienza a tutto tondo, stilisticamente priva di sbavature e capace di donare emozioni sempre fresche per una quantità incalcolabile di giorni, di mesi e forse persino di anni.
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