Per chi all’interno dell’FBI fa il lavoro di profiler, vale a dire di stilare i profili delle persone indagate dal Bureau, i videogiochi non sono causa di violenza. La notizia, per una volta fuori dal coro, arriva da un ex profiler intervistato dalla CBS nel programma Face the Nation.
L’interesse delle persone per i videogiochi sarebbe tuttavia inserito nei profili per capire se una persona è a rischio di comportamenti violendi, ma in modo diverso rispetto a quanto si potrebbe credere: secondo Mary Ellen O’Toole infatti, l’FBI vede i giochi violenti come un modo per accrescere un’idea già presente nella mente di una persona, e non quindi come mezzo per far nascere tale idea:
“Non li vediamo come la causa della violenza. Li vediamo come una sorgente per alimentare un’idea che sia già lì.”
Una differenza più importante di quanto possa sembrare, raccolta da Christopher Ferguson, professore di psicologia alla Texas A&M International che da tempo difende i videogiochi contro chi li accusa di essere la causa della violenza, schierandosi nel dettaglio contro il “panico morale” che trova il capro espiatorio nei nuovi media per i problemi della società.
Secondo Ferguson inoltre, i crimini violenti tra i giovani avrebbero raggiunto il loro minimo in 40 anni, nonostante la presenza sempre più massiccia dei videogiochi sul mercato: due statistiche in controtendenza, volendo stare a sentire chi punta il dito contro i videogiochi.
Ecco le parole del professore:
“Siamo in una modalità in cui ci si preoccupa o si va nel panico per questo tipo di media. Le cose non vanno nell’ordine giusto, abbiamo visto alcune persone partire con una conclusione per poi tentare di mettere insieme dati in modo selettivo per cercare di confortare quella conclusione.”
Obiettivo centrato, Ferguson, obiettivo centrato.
Via | Kotaku.com