Riflessa da uno specchio logoro, l’immagine tremolante di un Max Payne sconvolto dal dolore squarcia le tenebre del passato e ritorna a noi con il terzo capitolo della leggendaria serie a lui dedicata.
Il travagliato passaggio ai Rockstar Games della proprietà intellettuale della saga nata e cresciuta tra i freddi laghi finlandesi di Remedy trova conferma nei nove anni di purgatorio intercorsi dall’uscita dell’ultimo episodio, un periodo di tempo così dannatamente lungo da trasformare in rassegnazione la sofferenza patita dal protagonista e dai milioni di appassionati costretti ad attendere il suo ritorno.
Dei tanti discorsi fatti dalla stampa di settore nell’interminabile fase di sviluppo che il team Rockstar si è concesso per dare forma alla sua nuova creatura e ridare al Re del bullet time la sua fida corona, i più genuini sono stati senza ombra di dubbio quelli che, nel rispetto di ciò che è stato fatto in passato e nel sano scetticismo dei fan di lungo corso, hanno accompagnato le discussioni sorte in rete tra i cultori del genere e i giocatori più navigati: a prescindere dall’esperienza maturata dalla grande R, infatti, in questi mesi il palpabile timore per la “serializzazione alla GTA” è andato a braccetto con la ritrosia degli utenti impauriti dal profondo solco segnato dagli sviluppatori per dividere il concept originario dal nuovo percorso narrativo, stilistico e “ludico” intrapreso con Max Payne 3.
Con la recensione che vi proporremo quest’oggi, quindi, cercheremo di analizzare gli aspetti principali dell’opera per capire, dopo diverse nottate insonni passate con le versioni Xbox 360 e PlayStation 3, se le modifiche apportate dai Rockstar Games siano state o meno azzeccate.
LA NUOVA VITA DI MAX
“Nella mia fine è il mio principio”: gli eventi narrati nella campagna a giocatore singolo di Max Payne 3, come nel titolo dello straordinario giallo di Agatha Christie, tratteggiano l’esperienza di gioco e riempiono di simboli (e di pallottole…) il profondo vuoto emotivo che indurrà il protagonista a dare una svolta significativa alla propria esistenza a dodici anni di distanza dalla morte di sua moglie Michelle e di sua figlia appena nata, avvenuta nel primo episodio per mano di un branco di criminali sotto l’effetto di una droga sintetica.
Abbandonato lo stile fumettistico e le atmosfere noir del passato, gli autori di Rockstar hanno deciso di prendere in prestito dai Naughty Dog il fluido stile narrativo di Uncharted per fonderlo ulteriormente alle scene di gioco e dare all’opera il tratto caratteristico di un vero e proprio film interattivo, a cominciare dalla struggente scena introduttiva che ci restituisce l’immagine di un Max “assente”, piegato nello spirito e nel corpo dall’abuso di alcool e di antidolorifici. La dipendenza ai superalcolici e agli psicofarmaci, di conseguenza, è il filo rosso che avvolge la trama e la reinterpreta con gli occhi di un vagabondo svuotato, oramai, della rabbia scaricata sul corpo del mafioso di turno nei tumultuosi anni di servizio nel dipartimento di Polizia di New York.
In Max Payne 3, la rinascita di un eroe senza tempo non s’accompagna al riscatto del protagonista ma coincide, piuttosto, con la volontà di vivere nuove esperienze prima che sopraggiungano gli inevitabili acciacchi di una vecchiaia ormai imminente. La strada percorsa da Max per “tornare in azione”, per questo, è tutt’altro che scontata: il canovaccio narrativo steso da Rockstar Games per dare forma ai dialoghi e alle scene di intermezzo, infatti, si trasforma in un cliffhanger di emozioni che cresce al susseguirsi delle missioni e si alimenta del sangue versato dal protagonista per perseguire l’obiettivo affidatogli dai suoi nuovi datori di lavoro, gli appartenenti ad una losca famiglia di San Paolo finita nel mirino di una potente organizzazione criminale del posto. Scremata di ogni velleità finto-moralistica, la trama della campagna in singolo è cruda come un pugno e si concede all’emotività e al sentimentalismo solo in casi estremamente limitati, su tutti quello che ci vedrà salvare la vita della donna del boss, una situazione già vissuta da Max nelle sue precedenti avventure newyorkesi.
La “crudeltà” delle scene immortalate a schermo fa da contraltare alla “raffinatezza artistica” delle sequenze parlate e offre molteplici sfumature esaltate dalla longevità della trama (che, ai livelli di difficoltà più elevati, supera di gran lunga quella dei titoli analoghi), dalla varietà delle ambientazioni e, soprattutto, dalla ricchezza delle meccaniche di gioco.
L’EVOLUZIONE DEL BULLET TIME
Lontani dagli strappi narrativi compiuti dagli autori per dare all’opera un carattere diametralmente opposto a quello “gotico” dei due capitoli precedenti, gli aspetti legati al gameplay di Max Payne 3 si riconciliano col passato per offrire soluzioni simili a quelle regalate dagli episodi originari: da questo specifico punto di vista, infatti, gli sviluppatori di Rockstar Games si sono “limitati” ad attualizzare la struttura di gioco eretta a suo tempo da Remedy con soluzioni d’impatto volte ad evolvere gli aspetti peculiari delle sequenze Bullet Time e delle sparatorie “classiche”.
Nel caso delle iconiche scene al rallentatore che contraddistinguono da sempre la saga di Max Payne, ad esempio, si è scelto di suddividere le azioni Bullet Time da quelle Shoot Dodge per permettere all’utente di approcciarsi in modo creativo agli scontri a fuoco e di superare le situazioni più concitate senza scadere nella ripetitività tipica di questo genere di sparatutto in terza persona votati all’azione nuda e cruda: pur rimanendo legata alla stessa barra di adrenalina, l’attivazione del Bullet Time da fermo differisce da quella con salto “direzionabile” per la necessità di schivare le pallottole nemiche o di effettuare tiri di precisione. Nel grande lavoro di ottimizzazione e di miglioramento delle meccaniche Bullet Time compiuto dai Rockstar trovano poi spazio delle inedite trovate di puro intrattenimento che enfatizzano il taglio cinematografico delle sparatorie con sequenze ralenty ad attivazione automatica che inquadrano il malcapitato di turno mentre viene crivellato di colpi.
Come per le sequenze Bullet Time, anche nelle meccaniche base degli scontri a fuoco “in tempo reale” troviamo numerosi punti di contatto con il gameplay originario, ad esempio nella possibilità di impugnare due armi in contemporanea: richiamabile con la croce direzionale attraverso un menù toroidale, l’opzione del dual wielding garantisce una superiore potenza di fuoco a discapito della precisione e del consumo di proiettili (una merce rara, specie ai livelli di difficoltà più elevati). Le novità introdotte nell’impianto di gioco delle fasi sparatutto “classiche” sono poche ma di fondamentale importanza nell’economia complessiva, basti citare l’aggiunta del sistema di coperture dinamiche e l’adozione di un’intelligenza artificiale estremamente raffinata: quest’ultima, integrata nelle routine comportamentali degli avversari affrontabili nella campagna in singolo, consente agli sgherri del clan di Crachá Preto e agli assassini del Comando Sombra di “aggredire” con efficacia il protagonista aggirandone la copertura per stanarlo con movimenti fulminei e azioni coordinate con l’uso massivo delle bombe a mano.
A dispetto dei proclami iniziali di Rockstar Games, però, il sistema di coperture è appena abbozzato e non consente di rovesciare tavoli e panchine per farsi scudo dalle raffiche nemiche: da qui, forse, derivano le deficitarie meccaniche degli scontri corpo a corpo e lo scarso apporto dato all’azione di gioco dalla fluidità delle animazioni a corredo dei movimenti di Max. La linearità degli ambienti di gioco, oltretutto, viene marginalmente compensata dalla presenza di blandi elementi sandbox rappresentati dalla ricerca di oggetti affini alla trama, delle parti di armi d’oro e dei painkiller per la salute che, almeno (e per la gioia dei puristi del genere), non si rigenera automaticamente ma solo tramite i pochi antidolorifici nascosti nelle zone più anguste della mappa. Impossibile, poi, non citare tra gli aspetti meno riusciti del titolo il fastidioso e problematico sistema di ricarica che, specie nelle sparatorie più concitate, fa perdere tempo prezioso e porta l’utente a un inevitabile Game Over.
MULTIPLAYER
Grazie al lavoro certosino dei ragazzi di Rockstar Games, il passaggio dalla campagna principale alle modalità in rete di Max Payne 3 è estremamente morbido e non intacca, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, il tenore qualitativo dell’avventura in singolo: chi volesse rivivere gli eventi del singleplayer prima di gettarsi a capofitto nelle arene multiplayer competitive, infatti, può farlo ripercorrendo le quattordici missioni “maggiori” in due specifiche modalità Arcade collegate ognuna ad una classifica online generale: nella prima, “Sfida a Punti”, ogni colpo inferto al nemico viene “giudicato” con un punteggio che si somma agli altri e, nel caso, si sottrae ai punti persi per ogni ferita subita, mentre nella seconda, “Ultimo Respiro”, viene ripreso il concetto delle gare a tempo tipico dei giochi di guida arcade per mettere il giocatore nella condizione di superare il livello prima dello scadere del minuto a propria disposizione (più i secondi aggiuntivi guadagnati con ogni nemico abbattuto).
A cavallo tra le modalità Arcade e le gare multiplayer competitive troviamo poi le sfide cooperative Gang Wars, legate anch’esse alle mappe della campagna per indurre un gruppo di utenti in rete a collaborare per il raggiungimento di un obiettivo variabile da missione a missione. Con le Gang Wars, e con la loro “violenta eleganza”, ogni ritrosia iniziale svanisce nel nulla e consente ai Rockstar di sviluppare una struttura in rete multiforme che offre eventi a tema, classifiche aggiornate giornalmente e un pesante modulo di personalizzazione dell’avatar legato al sistema delle Cricche, dei “super-clan” resi indipendenti dal gioco stesso per il collegamento al Social Club (e quindi “esportabili” nei prossimi titoli della compagnia statunitense, cominciando da GTA V). Chiudono l’offerta in rete le battaglie Payne Killers (con due utenti a far da bersaglio a un esercito di guerriglieri malintenzionati), e le ineludibili modalità deathmatch e team deathmatch, entrambe con un massimo di 16 utenti per lobby.
GRAFICA E SONORO
Forti dell’esperienza maturata con i capolavori della storia recente di Rockstar Games, i programmatori e i designer di Max Payne 3 hanno portato il Rage Engine sui livelli dei motori grafici più blasonati: i modelli poligonali dei personaggi a schermo rasentano la perfezione, la complessità delle texture che mappano le superfici delle ambientazioni sono complesse e dettagliate quanto quelle dei titoli PC più moderni, le luci fisse e dinamiche regalano ad ogni scena immortalata a schermo un carattere tutto proprio e le animazioni, a parimerito con quelle degli ultimi capitoli di Uncharted e con quelle facciali di L.A. Noire, sono semplicemente le migliori di questa generazione.
Il vero punto di forza del titolo, però, trascende gli elementi “tangibili” del motore grafico. L’aspetto più incredibile del comparto tecnico di Max Payne 3, infatti, è quello artistico: il particolare processo di “arricchimento visuale” cui sono state sottoposte le scene della campagna in singolo, la regia dei dialoghi e le inquadrature simil-cinematografiche delle fasi di gioco più concitate sono aspetti che, per la loro bellezza e originalità, meriterebbero di essere approfonditi in una recensione apposita.
Non tutto, però, va come dovrebbe: le limitate possibilità esplorative delle ambientazioni della campagna principale, unite al minuscolo font impiegato per la traduzione in italiano dei dialoghi in madrelingua e alla scarsa tenuta del famerate della versione PS3 al passaggio dalle scene di intermezzo alle sequenze di gioco, infatti, non possono che lasciarci con l’amaro in bocca.
Meno “ispirato” del lavoro compiuto per la grafica e per il “tratto artistico”, il comparto audio di Max Payne 3 si mantiene sugli alti livelli qualitativi dell’opera per l’azzeccata reinterpretazione della colonna sonora dei capitoli precedenti della saga, per il tenore delle musiche di sottofondo e, soprattutto, per l’interpretazione magistrale dei doppiatori, da James McCaffrey in giù.
COMMENTO FINALE
Alla luce degli elementi analizzati in questa recensione, concludiamo affermando che Max Payne 3, pur senza sconvolgere né sorprendere come i precedenti lavori di Rockstar Games (GTA IV e Red Dead Redemption su tutti), ha l’indubbio merito di riportare in auge, e nel migliore dei modi, una saga data prematuramente per spacciata.
Temuta come la peste dagli appassionati di lungo corso e dagli amanti degli action vecchia scuola, l’introduzione del modulo multiplayer non copre assolutamente la campagna in singolo e finisce persino ad esaltare il livello artistico, “ludico” e narrativo raggiunto dagli sviluppatori statunitensi per dare forma agli eventi vissuti dal protagonista nella sua ultima avventura tra New York e San Paolo.
Nell’universo virtuale di Max Payne 3 il vecchio volto degli action in terza persona si riverbera nel presente per prodursi, con la semplicità tipica dei capolavori, in una pioggia cristallina di luci, di emozioni e di sensazioni destinate a rimanere impresse nella mente degli utenti più smaliziati e dei neofiti degli sparatutto.
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