Da qualche giorno il mondo è finito. Superstiti, accorrete! Colui che scrive è uno di voi, che come voi è sopravvissuto al mondo che è stato, nella speranza di trovare un posto in quello che sarà. Nuovo giorno, nuova epoca… ma gli strascichi sono sempre gli stessi. Certo giornalismo nostrano potrebbe (dovrebbe) avere un gran da fare a spiegarci come restare in vita in mezzo alle macerie. E invece… invece si occupa di videogiochi.
I più informati saranno oramai al corrente del recente articolo (risale a giovedì scorso) apparso su Il Giornale. Uno di quei sempre meno rari pezzi di “giornalismo circolare”, nel senso che cammina attorno ad un argomento per poi tornare al punto di partenza. Perché, sia chiaro: se credete che di seguito ci produrremo in salti mortali per manifestare dissenso e finanche disgusto, siete sulla cattiva strada.
Troppo sterile il gioco al quale si prestano in molti, pro e contro. Ognuno, a seconda della militanza, trincerante sé stesso all’interno del proprio guscio di voluta ignoranza. Da una parte chi ai videogiochi ci si presta, e che non riesce a tollerare alcuna critica al proprio passatempo preferito. Dall’altra, chi invece non li conosce, e che quindi, come tutte le cose che non si conoscono, nutrono un certo timore; chiamiamola paura dell’ignoto. Due facce della stessa medaglia che, come tali, sembrano strutturalmente impossibilitate a comunicare.
Partiamo dalla bislacca tesi sostenuta nell’articolo di cui sopra, enunciata esplicitamente già nel titolo: «Strage Connecticut, colpa dei videogiochi». Tesi tutt’altro che originale, poiché a più riprese tirata fuori da chi all’approfondimento serio sostituisce per evidente comodità la deriva che implica un impegno minore. Come intendere diversamente i tanti proclami a detrazione dei videogiochi, ripescati sistematicamente da chi dimostra una pressoché totale estraneità all’argomento?
Qual è l’argomento in questione? Qui casca l’asino! Perché checché ne dica il vostro compagno di merenda, l’argomento da approfondire non sono i videogiochi in sé. A nessuno è richiesto un apprendistato di chissà quanti anni, nonché una percezione di game design oltremodo accurata. Di solito certe materie vengono maneggiate da professionisti i quali, dietro diciture più altisonanti, amano sentirsi o atteggiarsi a tuttologi. Sociologi, psicologi, antropologi, professori universitari e chi più ne ha più ne metta. Il solo titolo, nonché la sedia che occupano, sembra infondere in loro quanto serve per potersi esprimere su tante, troppe cose con cognizione di causa.
Ma torniamo all’autore dell’articolo, il quale, talmente imbevuto di malcelato zelo ideologico, intervista ed oscura contemporaneamente una psicologa e criminologa intervenuta in merito all’argomento che ha tristemente tenuto banco per appena una settimana, ossia la strage in Connecticut. Leggiamo come l’autore introduce il proprio pezzo.
«Si è parlato dei problemi di salute che aveva il killer, affetto da una forma di autismo. Si è dato poco peso, invece, alla sfrenata passione che Adam aveva per alcuni videogiochi violenti. Eppure sarebbero questi due elementi – malattia e videogames – uniti ad alcuni “errori” compiuti dalla madre, a scatenare la strage.»
Prima di procedere, confrontiamo quest’incipit con quanto sostiene la psicologa nello stesso articolo.
«La Bruzzone punta il dito sulla madre “molto narcisista” del ragazzo, che negava la malattia di suo figlio incentivandolo a primeggiare a scuola ma ignorando i suoi gravi problemi di relazione con il mondo. Il ragazzo viveva nel seminterrato della casa materna, dove aveva bagno, camera da letto, stanza con tv, computer. Alle pareti poster di armi e mezzi militari. Il suo unico collegamento con il mondo era sua madre. Quell’isolamento innaturale, esaltato anche dai videogiochi, di sicuro è stato fatale ad Adam: “Con certi giochi molto violenti si sollecitano circuiti particolari a livello di corteccia cerebrale. C’è una forma di apprendimento selettivo e sistematico che produce risultati molto pericolosi, specie nei bambini e nelle persone con problemi psichici”»
Notate qualche incongruenza? Se la risposta è no, vi diamo una piccola spinta. Il gergo giornalistico quasi mai disdegna di giocare con le parole, con la punteggiatura e finanche col virgolettato. Mettere tra virgolette il termine errori, riferito alla madre, non è in tal senso un semplice vezzo. Si tratta di un’operazione velatamente deprecabile, ai limiti della scorrettezza etica. Solo i più smaliziati riescono a rendersi conto di come due ordinarie virgolette sottendano un’operazione semplice ma al tempo stesso subdola. In questo caso la colpa peggiore non è tanto quella di scaricare ogni torto sui videogiochi (atteggiamento di per sé accettabile, o quantomeno comprensibile), quanto la parziale assoluzione verso la madre, trattata con condiscendenza, come se, suo malgrado, fosse anch’ella vittima. Ma ci pensa la dottoressa Bruzzone, che addirittura “punta il dito sulla madre”.
Quali pensieri suscitano certe infelici uscite? Beh, incastrato in quella che Augusto Del Noce definisce eterogenesi dei fini, il redattore de Il Giornale finisce con lo smentire anzitutto sé stesso, ponendosi quale esempio migliore per chi sostiene una tesi diametralmente opposta alla sua. Dopo aver letto l’articolo non riusciamo a fare a meno di credere che il titolo più adatto sarebbe stato: «Strage Connecticut, colpa anche dell’ignoranza dei videogiochi». Esatto, anche. Perché non sta a noi assolvere o condannare nessuno, ma di certo deploriamo affermazioni tese a deresponsabilizzare a tal punto chi invece deve assumersi le proprie responsabilità.
Nel caso in questione, anche alla luce di quanto riportato nel secondo stralcio, la madre pare avere delegato l’educazione del figlio a qualcos’altro. Abbandonato a sé stesso, il giovane si è trovato senza punti di riferimento, solo, confuso. Questo di per sé non spiega un atto così estremo come quello compiuto, ma la connivenza di una madre assente, addirittura “narcisista” a tal punto da non voler ammettere i problemi del figlio, ci sembra essere il colpevole più accreditato.
Diversamente dovremmo prendere per buona la tesi dell’articolo, secondo cui sono i videogiochi ad aver contribuito in maniera determinante ai fini di quella tragedia. Ecco un altro leitmotiv: videogiochi dotati di personalità. Aizzatori, malvagi educatori, entità che incitano a quanto di più turpe c’è in questo mondo. Arrivate tardi, perché la letteratura, nel corso dei secoli, è stata in grado di partorire cose ben peggiori di quelle che si vedono oggi nei videogiochi più spinti. Certo, lì mancava il carattere immediatamente visivo (relegato alla pura immaginazione), nonché quello interattivo (anche se qui ci sarebbe da redigere un articolo a parte). Ma prima di evidenziare in maniera inequivocabile certe distinzioni così nette, bisognerebbe approfondire quale e quanta fosse la presa di certi testi nelle menti dei lettori di ogni epoca.
Per tornare alla tesi incriminata, in questo caso dare la colpa ai videogiochi è un po’ come incolpare i dolci per aver provocato il diabete. Tocca al genitore disciplinare il figlio, perché eticamente, prima ancora che legalmente, questo è l’obbligo che grava su di lui verso la prole. Se chiudo un bambino particolarmente goloso in una stanza insieme ad un barattolo di Nutella da 1 KG, non posso prendermela con la Ferrero perché la Nutella è troppo buona. Lo stesso ha fatto la madre del ragazzino in questione.
Perdonate la drastica interruzione, ma per motivi di spazio spostiamo adesso l’attenzione sull’altro esperto intervenuto nell’articolo apparso su Il Giornale, dando anzitutto a lui la parola – sperando pure di scansare il pericolo di scadere in banalità.
«Adam è un giovane della porta accanto, abbandonato ai suoi disturbi di personalità e asocialità, coltivato dall’odio virtuale dei videogiochi stragisti, che ti invitano a fare carneficine, nella finzione dello strumento digitale, che, in menti predisposte a far tornare i conti con una aggressività intensa e repressa per molti anni, decidono di toglier quel sottile foglio che ormai separa il mondo reale da quello virtuale, quello normale, e quello patologico così di moda nei film horror e in serial tv come Criminal minds»
«Con alcune tipologie di persone propense all’isolamento il videogioco diventa un’attività compensatoria che va ad alimentare l’autostima, con uno forte scivolamento della percezione della realtà che tende a privilegiare quella virtuale, dove il soggetto si sente più potente e sicuro di sé»
In questo caso il centro dell’argomentare verte sul carattere alienante dei videogiochi; critica, lusinghiera o accusatoria che sia, a dire il vero fondata. Tuttavia non riusciamo a toglierci dalla mente che questi professionisti non facciano altro che rinfacciarci che l’acqua sia bagnata. Hai voglia a cospargerti di acqua per dimostrare che asciutto non ci rimani: nessuno ti costringe a buttarti a mollo vestito, per giunta quando fuori ci sono pochi gradi. Vi prego di non soffermarvi su questi stravaganti paralleli. Perché quanto appena detto ci introduce nel campo delle condizioni.
Esistono una serie di attività, cose, atteggiamenti etc. che a determinate condizioni incidono in maniera differente. Se soffro di mal di pancia, per esempio, eviterò la frittura; se non so portare la macchina non mi metto alla guida; e via discorrendo. Affermare che non tutti possano o debbano avere accesso ai videogiochi è un’affermazione utile, ma che non risolve alcunché. È evidente che non tutti possano fruire di ogni singolo gioco, e soprattutto non nella stessa misura. Ma allora perché non soffermarci su questi rapporti, ossia tra il videogioco ed il suo potenziale fruitore? Soffermandoci su entrambi gli aspetti, senza astrarre oltremodo il videogioco da colui che vi si presta, perché di solito non ci si ferma al malato, né ai suoi sintomi: entrambi servono per risalire alla causa. Oggi, a più riprese, tale causa è il videogioco. Bene. Perché allora non studiarla tale causa? Non per forza, come accennato in apertura, dedicando a tale attività una spropositata quantità di tempo, bensì accostandovisi nella misura opportuna, tale da permetterci un’adeguata acquisizione di dati. Non dovrebbe funzionare più o meno così la scienza?
Perché in fondo i limiti di articoli come questi stanno essenzialmente qui, ossia nel non voler nemmeno sforzarsi di conoscere. A chi intende tentare l’approccio con la materia non si chiede di completare Dark Souls senza mai morire. Si chiede solo di prendersi la briga di apprendere i meccanismi e le dinamiche sottese alla fruizione dei videogiochi. E va da sé che per studiare i videogiochi non ci si può vincolare a chi ne fa utilizzo. Osservare chi gioca come cavie da laboratorio a costoro dirà anche qualcosa, ma sarà sempre e soltanto una parte della verità. Una faccia di quella medaglia che inevitabilmente ne ha due.
Piaccia o meno, questo è il mondo in cui ci troviamo. La contemporaneità esige una preparazione ed una prontezza che è ben altro rispetto all’accademismo di certi sedicenti esperti. Per sguazzare in questo ambiente bisogna essere, in altre parole, preparati. E ci spiace per lorsignori, ma i videogiochi sono parte integrante di questo scenario. Il medium in questione va sempre più prendendo piede ed in forme sempre più disparate. Dalla spropositata espansione del mercato alla ludicizzazione del quotidiano, trattasi di una materia alla quale sarà sempre più difficile sottrarsi, pena essere tagliati totalmente fuori da dinamiche che finirebbero per travolgerci in malo modo.
E ci sono pure tante questioni, mosse anche da chi non nutre particolari simpatie per questo settore, sulle quali si potrebbe e dovrebbe discutere. Anche tra quelle apparentemente più infondate, i consumatori abituali di videogiochi dovrebbero accettare di buon grado la messa in discussione di tale pratica. Argomenti come “videogiochi quale una delle cause dell’obesità“, oppure, un po’ più complottisticamente, “videogiochi: training per i soldati di domani“, da molti sono stati recepiti come sparate da parte di individui privi di senno. Ma non è questo il metodo mediante cui procedere. C’è un viscerale bisogno di porre questa forma d’intrattenimento, nonché noi che ad essa ci prestiamo, sul tavolo della speculazione, della ricerca, senza sconti e senza partito preso.
In un mondo la cui implosione è oramai inesorabile (Maya a parte), sconoscere certe dinamiche, certi linguaggi, equiparerà il diretto interessato alla stregua di un membro della tribù degli zulù, strappato alla propria terra e calato in un contesto come quello di una qualunque grande metropoli odierna. Non ci spingiamo al punto di sostenere che dalla conoscenza dei videogiochi (sic) dipenda la nostra, vostra e loro sopravvivenza; ma la storia c’insegna come sull’accesso ai media e la relativa consapevolezza circa il loro funzionamento stanno o cadono intere civiltà.
La nostra è mediamente già troppo arretrata, e certo giornalismo né in parte lo specchio. Giriamo quindi la domanda a chi di dovere. Siamo sicuri che il problema giaccia nella troppa confidenza con l’ambiente videoludico? È forse il contrario? O piuttosto la questione è mal posta a priori?