Siamo nel 2001. Anno storico per tanti motivi, di cui il più noto è anche il più infame, ossia l’abbattimento delle Torri Gemelle in quel sin troppo vivo 11 Settembre. Un ricordo personale: qualche mese prima di quel nefasto evento acquistai una rivista di videogiochi italiana che aveva dedicato all’imminente GTA III – il nuovo, attesissimo capitolo della saga – un cospicuo approfondimento. Ritrovare tale cimelio cartaceo è utopia, ma ricordo bene un box a lato in una delle pagine di questo speciale che riportava alcuni tra i nomi dei criminali più ricercati d’America. Manco a dirlo, tra tali most wanted figurava un certo Osama Bin Laden. Fossi stato già allora un giornalista arguto, di quelli buoni per la carriera, mi sarei fatto in quattro per reperire una copia di questa rivista e avrei buttato lì una mia tesi che, prove alla mano, non sarebbe stata del tutto infondata. Bizzarra magari, ma con il beneplacito di qualche compiacente maître à penser non avrei avuto difficoltà a diffonderla efficacemente: «Rockstar Games sapeva dell’attentato alle Torri Gemelle con sei mesi d’anticipo: la verità svelata da una rivista di videogiochi italiana». Bella immagine ricattatoria ad accompagnare il tutto, ed il pacco sarebbe stato pronto.
Per fortuna (o sfortuna), i giornalisti non leggono le riviste di videogiochi. Neanche il sottoscritto le leggeva, in fin dei conti: internet oramai era una realtà piuttosto solida e con ampi margini di miglioramento, mostruosamente evidenti peraltro. Eppure Grand Theft Auto già da qualche anno era divenuto la luce che illuminava quella parte della mia esistenza dedita ai videogiochi, perciò, come direbbero i latini, de GTA nunquam satis (di GTA non si dirà mai abbastanza). Eppure, per quanto particolare ed ironica, se non addirittura irritante, possa apparire la correlazione tra l’innocuo box di un’altrettanto innocua rivista ed uno dei crimini peggiori degli ultimi cento anni almeno, capite bene che su qualcosa poggia. Qualcosa di surreale, senz’altro, ma si tratta di giornalismo, ragazzi: in quest’ambito si vive di storie fatte a brandelli e restituite a pezzi, nel tempo e senza mai essere troppo espliciti. Insomma, continuo a credere che in qualche modo perverso sarei potuto diventare il giornalista che non sono.
Rischieremmo di offendere l’intelligenza dei nostri lettori se adesso evidenziassimo pure l’ovvio, ossia che l’imbeccata per questo stravagante aneddoto fosse giunta a seguito del bestiale episodio in cui un’anziana signora ha perso la vita ad opera dell’amato nipote. Eppure tocca farlo. Brutta storia, ma di cui in realtà non frega a nessuno perché in fondo, in tutto il globo, ne schiattano a migliaia ogni giorno. Curiosa la reazione dei «videogiocatori»; non sorprendente, intendiamoci. Curiosa perché, ancora una volta, costoro divengono complici più o meno volontari di un meccanismo alquanto discutibile, ma non per questo meno reale, ossia la cavalcata dell’onda. Qualcuno, non a torto, farà notare che anche noi stiamo cavalcando l’onda approntando addirittura una sorta di approfondimento a riguardo, ma di seguito spieghiamo perché avrebbe torto.
A nessuno pare far specie l’idea che un bimbo di appena 8 anni possa avere sparato alla nonna, la stessa donna che probabilmente ha accudito l’autore del misfatto da quando era in fasce, e che (chi lo sa?) magari se ne stava occupando proprio mentre i genitori erano altrove, quindi per fare loro un favore – di cuore, ci mancherebbe. Ma a riguardo non possiamo far altro che congetturare, visto che della vicenda vera e propria è stato scritto poco o nulla, “quanto basta” diciamo. E d’altronde chi darebbe credito a colui che si stracciasse le vesti per questa seppur matura vita spezzata dall’incoscienza di un momento? Per quanto riguarda chi scrive, avrei addirittura timore di una persona del genere. Questo a dimostrazione del fatto che oggi le morti sul giornale fanno meno effetto di un bicchiere di vetro che cade a terra mentre si è a tavola. Ma nel rigettare certo moralismo alla bisogna, meramente utilitaristico peraltro, ecco come risponde la comunità giocante: accanendosi con i media «ignoranti e bugiardi» e rimasticando le contro-tesi di sempre, quelle per cui i videogiochi non fanno male; del «io gioco da 20 anni e ho un lavoro e due bimbi, oltre che una moglie che stimo e rispetto»; del «mi offro alla scienza: sono uno di quei casi che sottoposti a forti stimolazioni videoludiche aborro la violenza. Studiatemi!»; per cui la TV, il Cinema, il Teatro, la Musica, la Letteratura e finanche la religione (?) hanno fatto e fanno più danni; et cetera et cetera.
Un coacervo di concetti condivisibili, rievocati e proposti nel modo sbagliato. Ancora una volta il pesce ha abboccato all’amo, senza capire che una delle leggi fondamentali dello spettacolo/intrattenimento, dunque sia dell’industria giornalistica che di quella videoludica, è che non importa che se ne parli bene o male, purché se ne parli. Noi, che ci ostiniamo a credere che i blog (chissà ancora per quanto) siano altro, non ci sentiamo a disagio nello “smascherare” l’acqua avvertendo che è bagnata.
Chesterton, nel suo I paradossi del signor Pond, faceva dire al protagonista che «gli errori più evidenti scaturiscono da questa abitudine a considerare un’osservazione fuori dal suo contesto e quindi a formularla in modo non del tutto corretto. Le verità più normali e ovvie, se riferite in questo modo, possono apparire alquanto assurde». È così. Perché una vicenda di cui non si conoscono non diciamo tutti gli elementi ma almeno tutti quelli che servono, contiene in sé tutto ed il contrario di tutto. Per esempio, qualcuno riterrebbe «terribilmente disgustoso» (cit.) che Rockstar Games ci avesse messo lo zampino in tutto ciò: non nel senso che avrebbe assoldato il ragazzino, quanto in quello che la notizia è falsa, una mera operazione di marketing. E perché mai una cosa del genere, qualora fosse vera, dovrebbe addirittura suscitare sdegno?
A chi, per un motivo o per un altro, non conoscesse abbastanza bene l’animo umano oppure certe logiche sottese al successo nell’epoca che viviamo, non farebbe poi così male leggere il libro di David Kushner, Wanted. Trattasi di un breve ma a conti fatti interessante resoconto inerente all’ascesa degli Houser, sebbene sia venduto come un viaggio attraverso la storia di Grand Theft Auto – d’altra parte, ad un certo punto, distinguere l’iter della saga da quello professionale dei due fratelli, Sam e Dan, è impresa assai ardua. Tra realtà e leggenda, Kushner fornisce alcuni accattivanti retroscena, per cui vale il principio secondo cui «se non tutto giusto, quasi niente sbagliato»: ciò significa che, per quanto “abbelliti”, siamo portati a credere che certi episodi corrispondano grossomodo a verità. L’indole spaccona ed estremamente ambiziosa di Sam, il più grande, si afferma sin dagli albori della sua strepitosa carriera, quando acciuffa per i capelli un posto alla BGM perché l’amico del padre, un certo Heinz Henn responsabile marketing della suddetta casa discografica, resta impressionato da una laconica uscita dell’allora giovanissimo Sam, appassionato anzitutto di musica e poi di videogiochi. All’accorato discorso di Henn secondo cui la BGM stesse cercando di far breccia nella «proficua cultura contemporanea», lo screanzato nonché futuro fondatore di Rockstar Games rispose: «E allora perché quelli dell’industria discografica sono tutti vecchi? Come mai non ci sono giovani che lavorano nel settore?». Poco dopo Sam ricevette un’offerta di lavoro (Wanted, David Kushner, 2012; pagina 24). Lo stesso che, più di un decennio dopo, si ritroverà ad affrontare il suo primo processo per via della sua creatura, del suo successo, della sua diffusione. Insomma, volete che un tizio del genere non sappia come gestire il principale motore del giornalismo a tutti i livelli, ossia lo scandalo?
Se ai milioni di appassionati di GTA mostrassimo tre foto e chiedessimo quale dei tre fosse Sam Houser, quanti di questi saprebbero cosa o come rispondere? E non c’è da biasimarli, perché il nostro non è mai stato un amante della mondanità mediatica, ha sempre rifiutato di esporsi più di tanto, perché ciò che aveva contribuito in maniera così determinante a creare ad un certo punto ha cominciato ad esporlo già abbastanza. Quanti, per esempio, sarebbero in grado di fornire prove documentate circa un annuncio ufficiale a seguito di uno tra i vari crimini indirettamente e forzatamente collegati a questa celebre saga? La verità è che, salvo non essere stati costretti a farlo per un motivo o per un altro, Rockstar ha sempre lasciato correre. Anche di questa filosofia se ne ha traccia nel libro sopra citato, il quale tutt’al più conferma una prassi consolidata, mai sfuggita a chi ha saputo osservare.
Quando perciò leggiamo dell’ennesima vittima di GTA, non chiediamoci se ci sia una vittima; piuttosto chiediamoci chi sia. Ed ancora una volta l’identikit di quest’ultima ha un volto familiare, talmente familiare che basterebbe guardarsi allo specchio. Non c’è bisogno di scomodare alcuna teoria complottistica, avallare tesi secondo cui la perfida Rockstar abbia sul libro paga giornalisti o intere redazioni: talvolta basta semplicemente non fare nulla. Scopriremmo allora che la verità spesso e volentieri è ben più semplice di quello che sembra, e che uno dei primissimi quesiti che dovrebbe porsi colui che la volesse seriamente indagare è »cui prodest?» (a chi giova?). Interessa a voi che un bimbo abbia ucciso sua nonna a pistolettate? Davvero oggigiorno un episodio del genere, per quanto tragico e deprecabile, fa notizia? Di contro, quanto manca all’uscita di un determinato prodotto? Quanti accessi garantisce una simile notizia? Quanti e perché sono interessati affinché la questione venga nuovamente posta? E perché proprio adesso? Anziché dare risposte, cercate. Comodo sarebbe che noi vi donassimo la verità, ché se l’avessimo (quella vera) non staremmo qui a scriverci sopra un breve articolo, no di certo. Quindi mettetevi in fila, dietro di noi c’è posto.
Per concludere, ci riallacciamo a quanto scritto in apertura con una piccola licenza divagante. È tesi ampiamente dibattuta quella secondo cui l’attentato alle Torre Gemelle segnerebbe il punto di svolta tra un’epoca e un’altra; se n’è discusso parecchio specie in relazione al cinema, alla spettacolarità marcatamente hollywoodiana divenuta devastante ed incredibile realtà. Ebbene, non tutti se ne sono accorti, ma se c’è qualcuno che porta avanti la bandiera di quello che convenzionalmente viene ancora definito postmodernismo è proprio Grand Theft Auto, è Houser, sono i videogiochi. Quell’epoca, di cui parecchi hanno scritto ed in maniera di gran lunga più illuminante di quanto potremmo fare qui, vive oggi come un fantasma che non ha ancora abbandonato del tutto il proprio corpo; un periodo che molti conoscono, e di cui buona parte di noi è figlio. Fatta di contraddizioni estreme, tutte proclamate e parimenti accettate, quest’era pare avviarsi verso una fine inesorabile, sebbene non si sia ancora capito come definirla realmente. Per questo ed altro ancora, non chiediamoci dunque se una serie pluri-milionaria come Grand Theft Auto abbia ancora bisogno (oggi, anno Domini 2013) di pubblicità. Se intendiamo fermarci a questo livello, non serve fare domande. La risposta è già contenuta in quanto diramato nelle ultime ore, tra un bambino che torna a casa da papà e mamma raccontandogli di aver fatto fuori la nonna e fughe birichine di materiale: tra meno di un mese sarà presente sugli scaffali di mezzo mondo GTA V. Bad boys, time for your cookies!