Ed anche un altro E3 se n’è andato. Quanti di voi ricordano gli anni in cui si saltava letteralmente dalla sedia ogni 5/10 minuti? Anche per noi, che anagraficamente stazioniamo sotto i trent’anni, certi momenti sembrano riportarci troppo a ritroso nel tempo. La verità è che da qualche anno a questa parte (tre? quattro?), l’evento losangelino non rappresenta più l’apice di godimento videoludico dell’anno. In quei tre giorni l’Electronic Entertainment Expo non riesce più a condensare un così elevato tasso di stupore e meraviglia per ciò che sarà da lì a venire.
Ma di tutto questo, a chi dare la colpa? E’ evidente, seppur in maniera opposta, che l’E3 resta comunque l’appuntamento più importante dell’anno per quanto riguarda questo settore. E se fino a qualche anno fa eravamo pronti ad assistervi con l’ansia di un bimbo che scarta il tanto atteso regalo di Natale, non è certo in virtù dell’ottima o pessima abilità degli organizzatori. L’appuntamento di Los Angeles resta fondamentale perché, più di ogni altro, ci fornisce una discreta diagnosi circo lo stato di salute (o malattia) in cui versa l’industria.
Un’industria, quella videoludica, che attraversa un periodo di evidente crisi. E che cerca di dissimulare le vistose piaghe coprendole di vesti che ci dicono essere sfarzose quando, in fondo, non lo sono affatto. Tante, troppe le domande che balzano alla mente a seguito di quest’ultima edizione. Domande che un articolo come questo può solo sfiorare, e nemmeno tutte. Tentiamo, dunque, di fare mente locale. Non si tratta di un vero e proprio resoconto, quindi non aspettatevi una lista esauriente di tutto ciò che abbiamo visto. Ci limiteremo piuttosto a prendere spunto da alcune cose, per intavolare una discussione di più ampio respiro.
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Partiamo dal titolo. Provocatorio, è vero, ma non casuale. Gli espedienti principali con cui le tre big hanno tentato, ognuno a proprio modo, di spostare l’attenzione sono stati essenzialmente due: connettività e transmedialità. A coloro i quali questi due termini dicessero poco o nulla, portiamo degli esempi pratici. L’intera conferenza Microsoft si è pressoché basata sulla possibilità di “trasportare” l’esperienza da una piattaforma a un’altra (Smart Glass). Come nei più celebri film o romanzi di fantascienza, in un futuro molto prossimo potremo dislocare da un pannello a un altro ciò a cui stiamo assistendo, o con cui stiamo interagendo. Dalla TV al tablet, passando per uno smartphone. E il tutto, con un semplice gesto. Bello, bellissimo!
Ma all’atto pratico, quanto e come inciderà sulla nostra esperienza di gioco tutto ciò? Nintendo, in tal senso, ha dovuto operare in maniera più incisiva, dato che della connettività e transmedialità tra TV e tablet ne ha fatto la prerogativa della sua prossima home console. Prendete Zombi U, uno dei titoli potenzialmente più interessanti (targato Ubisoft, aspetto su cui torneremo a breve). Tra le possibilità più accattivanti che ci vengono mostrate, spicca quella in cui avremo modo di imbracciare un fucile da cecchino: il nostro mirino sarà il pad, che dovremo muovere in linea con lo schermo del televisore per centrare i nostri obiettivi. Accattivante, come dicevamo, ma bisognerà vedere all’atto pratico come andranno le cose. Per esempio, quale e quanto sarà lo scarto grafico al passaggio dallo schermo principale (TV) allo schermo secondario (pad/tablet)? Senza contare tutte quelle beghe di carattere tecnico che non stiamo qui ad evocare per difetto di competenza.
Ma se, a loro modo, in quel di Kyoto hanno dovuto focalizzarsi per forza di cose su tale aspetto, a Redmond l’argomento pare sia stato preparato all’ultimo minuto. Come quello studente che scopre due giorni prima dell’esame di doversi preparare su tutt’altro rispetto a quanto fino a quel momento studiato, Microsoft sembra aver voluto accodarsi a Nintendo già da subito, senza aspettare che, magari, quest’ultima riuscisse a scavarsi una nuova, dorata nicchia. E se nicchia sarà, chiunque vorrà chiaramente esserci. Ecco allora che dispositivi portatili di ogni sorta diventano appendice fondamentale di certi titoli, da alternare al pad (nel caso di Microsoft) o pad essi stessi (è il caso di Wii U). Ancora una volta… bello, bellissimo!
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Insomma, siamo davanti alla rivolta delle periferiche. Periferica tiranna!, verrebbe da esclamare. Sì perché in fondo di questo si tratta. E che quella delle ultime periferiche sia qualcosa di molto simile alla “tirannia” è di per sé evidente. La situazione che ci viene prospettata si basa su fondamenta sin troppo precarie; quasi nessuno è riuscito a spiegarci su cosa dovrebbe realmente poggiare questo “strapotere” di hardware a supporto, che oramai si accingono a rivaleggiare con quelli principali – visto che la disputa con le periferiche classiche di controllo (controller classici) sembra oramai archiviata.
Ancora una volta, partiamo da Microsoft (tranquilli, ce n’è per tutti). A distanza di quasi due anni dalla commercializzazione di Kinect non si riesce ancora a scorgerne la reale applicazione. E’ una periferica che la compagnia statunitense in primis pare non avere idea di dove e come collocare. Emblematico, in tal senso, è l’uso che ne è stato paventato durante l’apposita conferenza. Tralasciando il solito Dance Central 3 (divertente eh… per carità), l’ambito a cui sembra essere stata vincolata la periferica di motion-control è quello vocale (sic). Ma come? Un dispositivo che dovrebbe anzitutto farci muovere liberamente, relegata al rango di microfono? Madden e FIFA, ma anche un qualunque FPS… potremo impartire ordini e direttive, senza dubbio incrementando le possibilità in termini tattico-strategici. Ma di nuovo? Serviva Kinect per questo?
Ok, ci sono stati proposti, in ordine, Nike+ Kinect Training, Wreckateer e qualcos’altro. Potremo scagliare un’Onda Energetica con il nuovo Dragon Ball, o evocare chissà cosa con il prossimo Fable: The Journey (esatto, quello in seguito al quale, forse casualmente, Molyneux ha abbandonato i Lionhead). E qui passiamo ad un altro leitmotiv di questo E3: i seguiti/prologhi/rifacimenti. Anche in questo caso, nessuna sorpresa o quasi. Si sapeva che saremmo stati inondati di vari Mario, Call of Duty, FIFA, Assassin’s Creed e chi più ne ha più ne metta. Ma anche in questo caso, la domanda sorge spontanea: di cosa è indice tale tendenza?
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Beh, la risposta ci si presenta da sola. Mancanza di idee, direbbe qualcuno. Il che è vero, ma ancor più vero è che ciò che manca è il radicale desiderio di rischiare. Strada che quasi nessuno intende imboccare, perché con l’incalzante crisi economica anche i “grandi” devono fare attenzione. Ma è solo questo? No, non solo, a parere di chi scrive. Anche in questo settore vigono strategie a lungo termine, visto che ci troviamo pur sempre nell’ambito della tecnologia. I fallimenti di oggi sono gli errori di ieri.
Il problema viene quindi più da lontano, e personalmente, chi vi scrive, si domanda fino a che punto questo scenario non risenta dei giganteschi passi in avanti fatti dal mezzo negli ultimi anni, in termini di bacino d’utenza. Se quindici anni fa i regolari fruitori di videogiochi erano parecchi di più rispetto alla fine degli anni ’80/inizio ’90, oggi sono una legione. Orde di famelici consumatori, pompati a suon di pubblicità e quant’altro, avidi di notizie, curiosità e retroscena come mai prima d’ora. La rete ha fatto il resto.
Questo proliferare massiccio e incontrollato del mezzo ci ha condotto allo scenario attuale. Chi si trincera nel ghetto dei “videogiocatori”, dimentica di essere tutt’al più un puntino in un oceano. Etichette come casual e hardcore gamers sono prodotti recenti, tesi a diversificare in strano modo il mercato prima ancora che i suoi consumatori. Abituali ed abitudinari, all’insegna del “mio al D1“, “X ce l’ha più grosso di Y” e via discorrendo. Hanno appiattito l’utenza e così si è appiattito il mezzo stesso.
Ci hanno imbottito di Collector’s Edition e amenità simili (dalla dubbia qualità), in realtà racimolando quanto più possibile in attesa della definitiva dipartita del supporto fisico – ormai prossima, considerato che, stando ai dati di NPD, oltre al costante calo delle vendite retail negli ultimi tre anni, nel 2011 7,3 dei 16,6 miliardi di dollari incassati derivano da transazioni digitali (qui il resoconto dell’ESA). Ma non è una novità, perché già nel 2007 Phil Harrison, al tempo in Sony, fece chiarezza sull’imminente futuro: a breve, dichiarava, i videogiochi si venderanno solo tramite download.
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E cosa manifestano tutti questi ennesimi capitoli della medesima serie, e nei più svariati generi, se non la ferma volontà di far convergere il mercato verso questa direzione? Fenomeno, lo vediamo già oggi che ci troviamo nella fase davvero iniziale del processo, che implica un appiattimento pressoché totale. D’altra parte, come riuscire a proporre qualcosa di profondamente innovativo se di quel determinato titolo ne esce un capitolo ogni dodici mesi al massimo?
Passi con gli sportivi, ma cosa dire sulla miriade di FPS cloni? Ecco perché devono sistematicamente puntare sul multiplayer molesto: perché è l’unico modo di tenere in vita un progetto diversamente povero, troppo scarno per riproporlo a prezzo pieno una volta l’anno. E fenomeni come World of Warcraft o la marea di ottimi free-to-play ci dicono che questo futuro non solo è sempre più possibile, ma che è già adesso. Quanti ne conoscete che hanno abbandonato qualsiasi altro gioco per dedicarsi solo ed esclusivamente ad un qualsiasi MMORPG?
Insomma, come vedete non è solo colpa della Finanza ladra, che ci ha messo con le ginocchia a terra. E’ come se i maggiori protagonisti, inebriati dall’indiscutibile e netto successo, si fossero adagiati a tal punto da credere che il medium progredisse da solo. Così non è! Presupposto essenziale del mezzo videoludico è la sperimentazione. Nel momento in cui tale tale aspetto capitale viene meno, è la morte. Non si torna indietro. Si impara dal passato, si ripesca ciò che è adattabile… ma non si può stare fermi sullo stesso punto. Pena la scomparsa, drastica, inesorabile, violenta! E no, ciò non cozza con lo scetticismo mostrato in relazione ad introduzioni come quella dei contenuti transmediali. Perché all’innovazione tecnologica, nei videogiochi, deve seguire quasi di pari passo quella pratica. Sarà anche il sogno di tanti muoversi davanti a uno schermo in maniera equivoca, ma se il tutto si limita ad accarezzare cuccioli d’animale o colpire frutti altrettanto immaginari, capite bene che il verbo sperimentare potrebbe apparire un attimo pretenzioso. Questo è il caso della possibilità di vedere un film o giocare ad un gioco trasferendolo da un dispositivo a un altro (peraltro vorrei capire dove stia la vera innovazione in tutto ciò): la domanda che dovremmo porci è… quali sono i reali benefici? E perché?
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Che Ubisoft sia uscita da questa rassegna praticamente vincitrice rappresenta un sintomo ulteriore. La metà dei titoli degni di nota appartengono a loro, tra Zombi U, Watch Dogs, Far Cry 3 e Rayman: Legends. Per un totale di una nuova proprietà intellettuale e mezzo – il mezzo è rappresentato da Zombi U, perché sinceramente utilizzare il termine novità parlando di zombie ci sembra offensivo per l’altrui intelletto. Anche Sony, che eppure non ha certo brillato, ha tirato fuori dal cilindro un The Last of Us che a dire di mezzo mondo è già un capolavoro e un Beyond: Two Souls che piace ad alcuni ma non a tutti, specie tra i “detrattori” di Cage.
Ecco, Sony. Nintendo, quantomeno, aveva qualche “scusante”: il 2012 è l’anno di Wii U, quindi era giusto che ci si focalizzasse su di lei; anche se, alla fine, ci pare che il vero protagonista della conferenza sia stato NintendoLand, più che altro. Ma Sony quale attenuante ha per non aver trattato a dovere PlayStation Vita? Un bel pezzo di tecnologia, che però sembra non aver tratto giovamento dalle peripezie del suo diretto antenato, ossia PSP. Uscita meno di quattro mesi fa, sappiamo che su di lei Sony ripone(va) molte speranze. E allora perché bistrattarla in questo modo?
A onor del vero, alla hybris di Kaz Hirai e della sua Sony tendiamo a preferire di gran lunga l’attuale prudenza, dobbiamo ammetterlo. Ma non ci pare che questo passaggio repentino dalla spavalderia di qualche tempo fa al “silenzio stampa” dell’ultimo periodo sia la soluzione migliore. Nintendo, mesi fa, dovette clamorosamente riconoscere i propri errori e tornare sui suoi passi, con quel taglio di prezzo che l’anno scorso fece infuriare chi nel progetto 3DS ci credette sin dall’inizio – per poi trovarsi tra le mani 20 miseri titoli (o giù di lì) sulla cui portata si può ampiamente discutere. Da progetto “nato storto”, la grande (?) N ha risollevato le sorti di questa delicata console, facendoci sperare in un futuro ancora più radioso, visto inoltre che durante lo showcase di giovedì scorso è stata ufficialmente rinforzata la softeca con una proposta non sorprendente magari, ma di tutto rispetto.
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Molto, molto altro ci sarebbe da dire su questo E3 e sulle condizioni generali in cui versa l’industria tutta. L’impressione, mentre ci avviamo alla conclusione, è che in realtà nemmeno i suoi attori principali sembrino averci capito qualcosa. Nessuno, o quasi, sa davvero quale piega stia prendendo il presente e verso dove ci stiamo incamminando, spinti da un futuro che pressa e al quale non possiamo sottrarci. La scena indie (o indipendente), che volutamente abbiamo preferito non trattare, fornisce a suo modo degli spunti. Se non altro, giusto per gettare un seme di potenziale discussione, dimostra che nei Videogiochi, come nel Cinema, parecchio pare dipendere da logiche in prima istanza distributive.
Realtà oramai consolidate come i tanti siti di fund raising o crowd funding ci suggeriscono uno scenario in cui più o meno tutti, in teoria, potremo trovare i mezzi economici necessari a sviluppare qualcosa di importante. Ma rimane il problema della distribuzione, o meglio, della diramazione. Far sì che nello sconfinato oceano di internet si parli di noi e del nostro progetto, non importa a che titolo. Una prima risposta è stata data da piattaforme come quelle messe a disposizione da Microsoft con Xbox LIVE Arcade, ma come stiamo vedendo, alla fine i più “pubblicizzati” sono sempre quelli che contano “appoggi” migliori (è il caso di Journey o Braid), o nomi migliori (Tim Schafer su tutti). Esistono poi realtà come quelle di Angry Birds o Minecraft, i quali, ognuno a suo modo, rappresentano fenomeni a nostro parere marginali. Imponenti, certo, ma casi più unici che rari – e su cui si dovrebbero spendere fiumi e fiumi d’inchiostro ulteriore.
Cosa ci dice l’E3 di quest’anno, dunque, più di quanto già non sapevamo? Sostanzialmente nulla. Ci conferma, semmai, quanto già era assodato. Vale a dire che questo meraviglioso oggetto della nostra passione si trova al giro di boa; da qui in avanti può diventare di tutto… ma non potrà mai più essere come prima. Lasciate perdere visioni videoludicamente apocalittiche, qui si parla fatti concreti. Quella che stiamo attraversando è una fase di transizione, in cui tutto ma davvero tutto può succedere, specie l’impensabile. E non era un Expo, neppure il più importante al mondo, a potere di certo cambiare le cose. Non nel bel mezzo di una svolta/avvicendamento epocale, come già ce ne sono state/i in passato.