Parecchio si è parlato di Dishonored, specie in questa immediata vigilia che precede l’uscita del gioco. Dopo la scorpacciata di titoli dello scorso anno, Bethesda si presenta a questo 2012 con il solo titolo sviluppato dagli Arkane Studios. E per una compagnia che anche quando sbaglia difficilmente scivola del tutto, questo è certamente un elemento di cui tener conto.
Dal canto suo il titolo in questione è riuscito a calamitare su di sé un’attenzione particolare. Sono stati proposti blasonati accostamenti, come quello con Thief, pagone, quest’ultimo, ridimensionato a dovere dallo stesso Christophe Carrier, lead designer di Dishonored. E a conti fatti, salvo che per certe dinamiche, l’atmosfera ripresa in questo contesto tenta quantomeno di non far rimpiangere certi scenari.
Ma quel che capiremo strada facendo, lungo il dipanarsi della nostra disamina, è che la profondità di un titolo come Dishonored opera in orizzontale e non in verticale. Daremo ragione a breve di questa nostra affermazione, chiaramente. Vogliate voi concederci il piacere intanto di guidarvi attraverso i meandri di un mondo tanto lontano eppure, nell’anno Domini 2012, apparentemente molto vicino.
La “orizzontalità” alla quale abbiamo alluso poco sopra, essenzialmente, coinvolge pressoché ogni aspetto del gioco. Partiamo dalla trama per esempio. Un incipit narrativo tutt’altro che originale, forte di certi racconti a sfondo distopico, in cui a farla da padrone è un contesto ciclicamente spaccato in due: chi si adegua e chi si ribella; all’apice c’è chi comanda. Non è stata del tutto peregrina l’evocazione di Thief se si pensa che l’ambientazione ci riporta in quell’Inghilterra vittoriana ben descritta, per esempio, nei racconti di Dickens.
Di solito certe distopie ci scaraventano all’interno di scenari vagamente futuristici, a cavallo tra cyberpunk e fantasy, se del caso. E se in Dishonored la seconda delle componenti appena citate gioca un discreto ruolo, è la prima a mancare del tutto. E’ come se gli eventi del gioco si fossero già consumati, senza bisogno di scomodare un improbabile futuro.
A fare da sfondo è la città industriale di Dunwall, luogo testimone di una rapido quanto violento rovesciamento di potere. L’amata regina viene assassinata nelle primissime battute, nell’ambito di una congiura che coinvolgerà anche la guardia personale della vittima, tale Corvo Attano; ed quest’ultimo che noi siamo chiamati ad impersonare. Imprigionato ed in seguito perseguitato a causa di questo nefasto episodio, l’intera vicenda del gioco ha origine dal tentativo del protagonista di provare la sua innocenza, o meglio, la sua totale estraneità ai fatti. Quanto alla vendetta, beh… questo dipende da noi.
Tocca muoversi all’interno di un ambiente di stampo orwelliano; una città tappezzata di guardie che vigilano su ogni angolo di quello che oramai non è un Regno bensì una prigione a cielo aperto. Il nuovo reggente altro non è che uno spietato statista, più che disposto a sacrificare fino all’ultima vita umana pur di attuare il proprio disegno di pseudo-grandezza. Ma, a riguardo, meglio fermarsi qui e lasciare a voi il gusto della scoperta.
E’ tuttavia interessante menzionare alcuni aspetti del contesto entro cui Corvo deve muoversi. Un territorio ostile dall’inizio alla fine, dal quale raramente si riesce a prendersi una vacanza, se non al ritorno in quello che a conti fatti è il quartier generale dei ribelli – di cui, manco a dirlo, il protagonista fa di buon grado parte. Muoversi nell’ombra non è un semplice vezzo, ma in fin dei conti è il modus operandi maggiormente incoraggiato dal gioco.
A breve scopriremo il perché; per il momento basti la superficiale descrizione di uno scenario alla deriva. Una città abbandonata a sé stessa, dove regna il caos (termine non casuale) e dove vige la legge del più forte. Nella povertà generale, non può che sopravvivere il più forte, assecondando quel criterio di selezione artificiosamente naturale di cui parlava uno scienziato che proprio nella Londra dell’800 ha vissuto, ossia Darwin. Processo scandalosamente accelerato da una peste di cui non si conosce la provenienza, e che ha letteralmente piegato le gambe di buona parte degli abitanti.
IL PRESCELTO?
Facciamo un passo indietro, laddove si è parlato di ombra. Gli approcci che propone Dishonored sono sostanzialmente due: uno stealth, l’altro à la rambo. Fin qui, a dire il vero, niente di così particolare. Ma come abbiamo sottolineato in apertura, la profondità del titolo Arkane tende a muoversi in orizzontale, anziché, come buona parte di titoli a lui affini, in verticale. E’ palese l’intenzione, da parte degli sviluppatori, di recuperare un certo minimalismo strutturale. Anzitutto, ciò significa niente orpelli più o meno superflui.
Va grossomodo letta così l’uscita di Harvey Smith riguardo all’assenza di boss. E’ vero, in Dishonored non incrociamo in nessuno caso il classico boss di fine livello. Scelta per certi aspetti sovversiva, questa, se si pensa che il gioco è costruito seguendo uno schema piuttosto lineare. Abbiamo dei livelli (nove in totale), niente open-world in senso stretto dunque. Eppure mancano quei classici scontri che chiudono, se non ognuno di questi livelli, quantomeno un capitolo della trama.
Dove sta l’inghippo, allora? In realtà Arkane dimostra un certo temperamento nel muoversi lievemente contro corrente. Ed il vero marchio di fabbrica di Dishonored, se vogliamo, sta proprio in questo suo mancato assecondare certi schemi ben più consolidati. L’approccio stealth, alla fine della fiera, risulta fisiologicamente quello al quale veniamo spronati. Ciò ci viene suggerito dal cosiddetto parametro di Caos. In un contesto dove molte delle nostre azioni si ripercuotono sul mondo circostante, commettere delle stragi non può che comportare degli effetti più o meno immediati.
Maggiore è il numero di uccisioni che compiamo, più il livello di Caos sale. Cosa comporta tutto ciò? In larga parte un inasprimento da parte delle guardie, anzitutto in termini di numero, con la conseguenza che muoversi in maniera circospetta diventa un’impresa sempre più ardua. E’ chiaro, però, che non si riduce tutto a questo.
Corvo non è solo un formidabile assassino, aspetto che di per sé potrebbe non bastare. Anche in questo caso emerge quell’istanza realistica a più riprese avanzata da Arkane, per cui sarebbe stato nient’affatto credibile che un normale essere umano avrebbe potuto eludere un’intera armata facendo affidamento solo ed esclusivamente sulle proprie forze e abilità (chi ha pensato ad Assassin’s Creed lo ha fatto in maniera del tutto spontanea).
Il nostro alter-ego virtuale viene infatti dotato di alcuni poteri, che sta a noi accrescere e coltivare durante il corso del gioco. Tra questi, senza dubbio alcuno, il più utile è quello denominato Traslazione, che ci permette di “teletrasportarci” a pochi metri di distanza. Non tutti apportano dei benefici istantanei nell’economia del gioco, né allo stesso modo, questo è chiaro. Ed in tal senso sta a noi stabilire quanto prima come vogliamo muoverci.
Se, per esempio, decidiamo di operare nell’ombra, senza che nessuno si accorga della nostra presenza, poteri come quello che ci permette di evocare un gruppo di ratti (Branco Famelico) è senza dubbio preferibile a Ciclone, il quale ci consente di spazzare via qualunque cosa dinanzi a noi mediante una violenta folata di vento. Ma in realtà, in tal senso, non esistono particolari regole. Ognuno può decidere liberamente quale potere attivare e come utilizzarlo.
E’ esattamente in questo passaggio che Dishonored sprigiona la propria vitalità. Al di là del fatto che il titolo diverta, Arkane è riuscita a bilanciare in maniera encomiabile una struttura che di originale ha poco o nulla, se non nel suo dosare bene i vari elementi. In altre parole, nonostante di volta in volta ci tocca attenerci ad un solo obiettivo (più magari quello secondario), non è l’ordine dei compiti da svolgere ma come svolgere ognuno di questi che conferisce alle nostre azioni una libertà davvero coinvolgente.
Perché tra il non farsi vedere e lo sterminare chiunque si intrometta nei nostri affari, vi sono tante di quelle sfumature che in un solo giro è pressoché impossibile sperimentare per intero. Da qui emerge una pronunciata rigiocabilità della campagna, aspetto da non sottovalutare se si pensa che non stiamo affatto scomodando alcun online. Se a questo aggiungiamo i vari Obiettivi/Trofei, che forzano a compiere sfide effettivamente ardue, vi lasciamo immaginare quanto e quale sia la profondità di un titolo apparentemente “rigido” come Dishonored. In orizzontale, certo, ma comunque profondo come pochi.
IL CIELO E’ PLUMBEO MA NON PIOVE
Per noi che abbiamo portato a termine la nostra avventura su console (Xbox 360, nello specifico), soffermarci sulla grafica non rappresenta una parte dell’analisi particolarmente edificante. Nondimeno, Arkane è riuscita a giocarsi bene le proprie carte anche su questo terreno, a dispetto di certi limiti oramai sin troppo netti e oggettivi.
Se l’installazione del gioco ci ha permesso di limitare al minimo certi cali assurdi di frame-rate, tale scelta non ha chiaramente potuto incidere su una resa che con certe pratiche non ha nulla a che vedere. Non di rado abbiamo avuto modo di scorgere texture non esattamente “allineate”, sporche, se vogliamo. Nessun particolare demerito da parte degli sviluppatori: l’impressione, di certo non da ora, è che oramai gli hardware delle attuali console HD stiano stretti a troppi progetti.
Dove però Arkane riesce a metterci sapientemente una pezza è nella direzione artistica. Forti della loro passata esperienza in BioShock 2, nonché dell’ausilio evidente da parte di Bethesda, il lato artistico del gioco mostra una freschezza di cui non si può che parlar bene. Le ambientazioni sono curate, e laddove la mera potenza non ha potuto è stato lo stile a sopperire ad ogni manchevolezza.
Un pennello piuttosto ispirato quello degli art designer, che hanno dato sfoggio della loro abilità tratteggiando un contesto ampiamente evocativo, condendolo di alcuni squarci suggestivi. Soffermatevi sulla villa delle tre sorelle altolocate quando vi toccherà intervenire ad un ballo in maschera. Un ambiente in pieno stile vittoriano, sfarzoso, esagerato. Questo ci dà l’idea di quanta cura sia stata risposta in tale aspetto. A tutto ciò fanno il paio alcuni brani azzeccati, per certi aspetti fondamentali nel calarci totalmente nelle nostra avventura. Unico appunto relativamente a tale elemento, semmai, è il seguente: la colonna sonora brilla ma non spicca.
COMMENTO FINALE
Attenzione a Dishonored. Se non un outsider, di certo possiamo parlare del titolo in questione come uno di quelli che non ha goduto della stessa casa di risonanza di altri illustri colleghi. Progetto oltremodo interessante, per non dire riuscito, specie se si pensa che stiamo parlando di una proprietà intellettuale del tutto inedita. Un rischio, se vogliamo, che a nostro parere premierà gli sforzi condotti da Bethesda e Arkane Studios.
Per noi, poi, che tendiamo a considerare ogni videogioco come un’opera unica, estranea alle sue parti, soffermarci su certi difetti – che certo non mancano – ci sembra quantomeno ingeneroso. Dishonored è un titolo dall’appeal decisamente accattivante, e se dovessimo tentare di affibbiargli un vocabolo, diremmo che il termine bilanciato calzi a pennello.
Senza strafare, gli sviluppatori hanno preferito soffermarsi su pochi aspetti, elaborandoli in maniera efficace. Un titolo che dietro la propria rigidità strutturale, espressione di una marcata linearità nell’essere portato a termine, cela tesori nemmeno tanto nascosti. Un plauso doveroso, infine, va alla direzione artistica, componente che impreziosisce quello che senza remore di smentita possiamo definire una delle produzioni più notevoli di questo 2012.
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